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David Lynch raccontato da chi l’ha conosciuto: “Si presentò come capo scout”. Parla Marco Spagnoli. Il suo cinema? “Ecco perché vive ancora”. E su Wes Anderson (a Cannes): “Ogni film sembra lo stesso, ma…”

  • di Ilaria Ferretti Ilaria Ferretti

  • Thanks to Illustrazione generata con Ai

15 maggio 2025

David Lynch raccontato da chi l’ha conosciuto: “Si presentò come capo scout”. Parla Marco Spagnoli. Il suo cinema? “Ecco perché vive ancora”. E su Wes Anderson (a Cannes): “Ogni film sembra lo stesso, ma…”
David Lynch se n’è andato, ma il suo cinema è dentro di noi per sempre. Strade perdute, Twin Peaks, Eraserhead… Lynch è un enigma in cui perdersi, senza alcun bisogno di trovare una soluzione. Ne abbiamo parlato con Marco Spagnoli, esperto, critico e regista che Lynch non solo lo ha amato, studiato e analizzato, ma anche conosciuto e intervistato di persona. Un viaggio tra sogni e incubi, riflettendo sul potere (forse disperso?) del suo linguaggio che va oltre il senso — e su quella Palma d’Oro sfumata, soffiata da Nanni Moretti...

Thanks to Illustrazione generata con Ai

di Ilaria Ferretti Ilaria Ferretti

Come si può riassumere quello strano universo che è il mondo di David Lynch? Semplice: non si può. È impossibile capirlo. L’unica cosa che ci resta è continuare a guardare i suoi film, per tramandare un tempo che forse non tornerà più. Un tempo in cui si poteva uscire dal cinema arrabbiati, felici, confusi — ma sempre impressionati. È d’accordo anche Marco Spagnoli, critico cinematografico e regista, che non solo ha conosciuto Lynch, ma lo ha anche intervistato. Spagnoli che, nella nostra intervista, ci tiene a rassicurare chi, davanti a Lynch, si è sempre sentito smarrito: “Non tutti i film di Lynch hanno una spiegazione chiara, razionale, ma non devono nemmeno averla. Pretenderla è forse un residuo illuminista che con il suo cinema non ha alcun senso”. La mancanza di significato laddove basta il significante, l’amore per un mestiere che unisce critico e regista, si intrecciano con quella coscienza, quel pensiero lucido e onirico insieme, che è e resterà vivo per sempre dentro di noi, dentro il cinema di Lynch. Ma in questo 2025 iniziato — purtroppo — con la sua scomparsa, chi ha davvero scelto di omaggiarlo? Se agli Oscar è andata malissimo (con un rapido momento tributo e l'abito della Rosselini in ricordo di Velluto Blu), il Festival di Cannes sembra essere l'unico per ora ad aver dedicato un momento speciale nella cerimonia d’apertura con una performance di Mylène Farmer, amica e collega di Lynch che ha ricordato il maestro attraverso il suono della sua voce. E in Italia? Dobbiamo aspettare il Festival Italian Global Series, diretto proprio da Spagnoli a Rimini (dal 21 al 28 giugno)...

Marco Spagnoli
Marco Spagnoli Marco Scirè

Marco Spagnoli. David Lynch è un mondo strano. Cosa rappresenta per te il suo cinema? 

Rappresenta una tipologia di cinema molto onirico, molto ironico, con atmosfere anche strane, nel senso che non sono omogenee. Lui fa un genere tutto suo. È David Lynch, e nei suoi film succedono cose molto diverse tra loro, con momenti drammatici, disperati. A volte fai fatica a pensare che siano stati realizzati dallo stesso autore. Penso a Una storia vera, che è completamente diverso – o meglio, apparentemente diverso – dal suo cinema: sembra una storia concreta, ma poi chissà se lo è davvero. È un regista che è riuscito a imprimere, come solo i grandi autori sanno fare – penso a Hitchcock, Fellini, Kurosawa – un suo mondo. Tu vedi un film di David Lynch e capisci subito che è suo. Lo vivi. Ha questa capacità di essere del tutto originale, unico, anche nei film non completamente riusciti. Ma per Lynch il fatto che un film sia “riuscito” o meno è irrilevante. Non è quello il punto. Non hai solo un godimento estetico, ma un apprezzamento intellettuale che non sempre riesci a comprendere, ed è proprio questo il bello del suo cinema. Non tutti i film di Lynch hanno una spiegazione chiara, razionale, ma non devono nemmeno averla. Pretenderla è forse un residuo illuminista che con il suo cinema non ha alcun senso.

Il Festival di Cannes ha reso omaggio a David Lynch non solo con un documentario a lui dedicato, ma anche con una performance di Mylène Farmer, sua amica e collaboratrice. Secondo te, perché il Festival francese è riuscito a celebrarlo in modo così completo, mentre gli Oscar no?

Non so, sai, sono scelte strane. Posso dirti che al festival della seralità che stiamo organizzando a Rimini faremo un omaggio a David Lynch, un po’ diverso. Sarà un racconto molto semplice. Faremo vedere l’episodio pilota di Twin Peaks e poi commenteremo con alcune persone che hanno lavorato con lui. Farlo a Rimini ha un significato speciale, perché il regista preferito e amico di Lynch era Federico Fellini. Lynch lo andò a trovare di nascosto quando stava morendo, nel 1993. Tornando a noi, è evidente che ognuno fa le proprie scelte, ma io – dirigendo un festival tra Rimini e Riccione, legato alla serialità televisiva – non potevo non omaggiarlo. Ricordiamo anche che Twin Peaks ha dato il via alla serialità moderna. Su Cannes posso dirti che Lynch è stato presidente di giuria, aveva vinto la Palma d’Oro… Ma l'aspetto più interessante è che si tratta di un regista “vivo” nel senso più pieno: piace ai giovani, è uno dei pochi che riesce ancora a parlare alle nuove generazioni. Anche l’evento del collettivo romano Allegorica incentrato sulla sua cinematografia è una testimonianza di questo. È un regista che ha ancora tanto da dire. A differenza di altri autori che avevano dato tutto – e non è un male, anche Bergman si inserisce tra questi – Lynch ha ancora una voce viva. E questo lo rende raro. Tornando alla domanda inziale personalmente credo che il modo migliore per ricordare un regista oltre a un documentario su di lui, è far vedere i suoi film. Poi va detto anche che lui era superiore, se ne sarebbe fregato. Che dire, sono scelte, io a Rimini sono contento del fatto che faremo questo omaggio speciale.

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David Lynch con Naomi Watts sul set di Mulholland Drive (2001)

Qual è il legame tra David Lynch e il Festival di Cannes? Penso ai premi che ha ricevuto nel corso degli anni, ma anche a quello strano aneddoto legato a Nanni Moretti, che nel 2001 gli soffiò la Palma d’Oro con La stanza del figlio.

È impossibile ricordare tutto, ma è evidente che il cinema di Lynch, in un festival internazionale come Cannes o Venezia, ha sempre avuto un impatto importante. Fa un cinema profondamente americano, ma anche profondamente internazionale. Poi sai, le giurie giudicano secondo le loro sensazioni. A volte ci prendono, a volte sbagliano e non riconoscono tutto quello che potrebbero. Il cinema di Lynch ha ricevuto il premio più importante: quello del pubblico. Il fatto che tu mi stia intervistando stamattina, che i suoi film tornino in sala… è una prova di come il Cinema, con la C maiuscola, sopravviva al tempo, alle mode, alle giurie, ai premi dati e non dati. I premi sono importanti, ma sono anche un gioco. Il suo cinema è fuori dalle regole e dalle categorie. Forse doveva vincere più premi, ma detto questo è un artista talmente immenso che continuerà a parlarci attraverso i suoi film. Poi va anche precisato che La stanza del figlio è un film bellissimo. Per me è uno dei più profondi e universali di Nanni Moretti. Parla di perdita in maniera molto intensa, con un cast straordinario – Jasmine Trinca al suo esordio, Laura Morante, Silvio Orlando… Non so se il film di Lynch avrebbe meritato al suo posto, ma è chiaro che nella storia del cinema ci sono sempre tanti concorrenti validi. La stanza del figlio aveva anche una forza morale, etica, spirituale molto potente. I film di Lynch, comunque, restano a prescindere dai premi. Anche se i premi chiaramente aiutano a raggiungere un pubblico più ampio, penso anche al caso recente di Sean Baker. 

Qual è il primo film che consiglieresti a chi non ha mai visto niente di Lynch?

Mullholland Drive. Perché è un film labirintico. Sai, io sono un grande appassionato del cinema che parla del cinema. Questo film non l’ho mai capito del tutto. Ogni tanto lo rivedo per capirci qualcosa in più. Ha il potere di parlarti, di stupirti, di farti paura, di emozionarti. Ha delle caratteristiche che all’apparenza lo rendono più semplice: sensualità, desiderio, il femminile… ma in realtà lo complicano. È un film apparentemente accessibile, ma ha un potere deduttivo fortissimo. È quello che parla di più, e rispetto ad altri grandi capolavori lynchiani – come Twin Peaks – ti dà una porta d’ingresso più semplice, ma poi è difficile uscirne. Certo, anche Una storia vera è un film emozionante, commovente. Non è rappresentativo del suo cinema, ma è profondamente lynchiano – lo capisci solo alla fine. Ti chiedi: ma che film sto vedendo? Ed è proprio questa, per me, la cosa più bella che ti possa capitare al cinema. È come un appuntamento al buio: incontri qualcuno che non sai chi è, e lo scopri. Il film diventa un'entità vivente: ti seduce, ti respinge, ti sorprende, ti emoziona. Questo è un potere che pochissimi film hanno, ed è il grande problema del cinema in sala oggi: la scarsa capacità di emozionare. Chiaro, non tutti sono David Lynch. Come non tutti sono Tarantino o Fellini. Ma da qui a fare un cinema facile, che non ti emoziona né ti travolge, il passo è pericoloso. E spiega anche il successo della serialità. Le serie sono il medium degli scrittori. Le serie sono romanzi, i film sono racconti. E mentre i racconti devono vincere per KO, le serie vincono ai punti. Oggi è raro trovare film che travolgano davvero. Penso anche a Wes Anderson, che ha detto tutto quello che poteva dire: ogni suo film sembra sempre lo stesso. Invece io vado al cinema per essere sorpreso, e Lynch mi ha sempre sorpreso, anche se non sempre mi è piaciuto. Ma il piacere è secondario. Io voglio essere sorpreso. L’unico film, negli ultimi due o tre mesi, che mi ha davvero sorpreso è Sinners: pur essendo commerciale, con un impianto di genere molto forte, dice tantissime cose.

Hai mai incontrato David Lynch?

Non solo l’ho incontrato, l’ho anche conosciuto. Sto lavorando a un documentario su di lui, con due interviste inedite. Dovevano essere dieci, ma tra il Covid e varie difficoltà ne abbiamo realizzate due. Ora stiamo capendo come presentarlo. Si intitola La coscienza di David Lynch, un viaggio nel suo pensiero. Le interviste sono realizzate con Rüdiger Sturm, prodotto da Polifemo (Paolo Monaci, produttore di tutti i miei documentari) insieme a Samarcanda Film. Se non dovessimo trovare un canale commerciale, vogliamo comunque farlo vedere. Lui si è mostrato affascinante, paziente… ed è l’unica persona che io conosca che beve più caffè di me! Aveva letto il progetto che gli avevamo mandato e ha detto: “Facciamolo, perché è quello in cui io credo”.

Oggi abbiamo sempre più bisogno del suo cinema.

Sì, ma lui c’è. Non voglio farne una questione di fede, ma se uno conosce Lynch, sa che credeva in un altro livello di coscienza. E se ami il suo cinema, devi rispettare questa possibilità. Il grande cinema non è andato perduto. Una delle cose che mi è piaciuta di più durante il documentario è che lui si è presentato dicendo: “Mi chiamo David Lynch, sono nato a Missoula in Montana, e ho il più alto grado negli scout. Mi presento sempre così, perché il mio caro papà ci teneva che io facessi il boy scout.” Uno che ha vinto la Palma d’Oro, è stato nominato agli Oscar, ha fatto film che hanno cambiato il cinema… e si presenta così. Questa lezione di umiltà e talento è qualcosa che dovremmo far nostra.

David Lynch
David Lynch
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