Questa non è una recensione di un film, questa è la contemplazione di un personaggio. Questa non è una recensione è la storia di una bugia. Questa non è una recensione, è la recensione di un silenzio. Questa semmai è la recensione a un libretto di sala, perché “L’infinito” di Umberto Contarello, che esce oggi (15 maggio) nelle sale, è un’opera lirica, non nel senso del lirismo di un film, ma nel senso vero di un’Opera Lirica, dove parole e musica dovrebbero danzare insieme. E come ogni Opera Lirica deve avere un libretto di sala, che trovate qui, nella conversazione fenomenale tra Umberto Contarello e Danilo Rea orchestrata da Gianmarco Aimi. La storia del film è quella di uno sceneggiatore fallito. Ma, bisogna precisare, non è uno di quei metafilm, dei film sui film: è un’Opera Lirica, un melodramma (nel senso di dramma in musica, non di narrazione strappalacrime – ahi quanto è messa male la lingua italiana al giorno d’oggi, che distingue tra dramma è commedia, oh i miei amati drammi satireschi!) che parla di ognuno di noi: tutti, a un certo punto della nostra vita (direi della “struttura” ma ne parliamo dopo) diventiamo sceneggiatori falliti, sceneggiatori falliti della nostra vita, ancora di più chi ha avuto successo: chi non ha mai raggiunto il successo conserva fino all’ultimo la speranza, ma chi lo ha raggiunto diventa, per forza di cose, disperato. Questa, dicevamo, è la recensione di un silenzio. Ma di quale silenzio? Il silenzio della noia (cara a Contarello come a Paolo Sorrentino, che produce il film). Ma anche il silenzio dell’ozio in cui si agitano le correnti sottomarine anche se il mare, come si dice, manifesta una calma piatta. Ma come si arriva al silenzio? Mon Dieu, ma con la musica, con la melodia (attenzione qui alla differenza tra melodia e armonia, tra trama e struttura, perché Contarello gioca al gatto con il topo, come ha fatto qualcun altro, ma ne riparliamo): “Ma cosa è che rende bella una melodia?” chiede Aimi, autore del libretto di sala, “È il veicolo – risponde Contarello - che accarezza l’anima e non te la infilza. Una carezza di seta. E come Danilo Rea non c’è nessun altro al mondo che riesce a raggiungere questo risultato”. Ma è appunto un veicolo. E dove porta questo veicolo? Bisogna che porti da qualche parte. O gira in tondo all’infinito come in una immagine strepitosa del film?

Torniamo un attimo indietro: abbiamo detto che questo film è una magnifica bugia. Una bugia su cosa lo diremo dopo. Occupiamoci del veicolo della melodia ancora per un po’, “Mon Dieu, mon Dieu, Mon Dieu! Laissez-le moi Encore un peu, mon amoureux…”: porta al silenzio, prima la melodia, subito dopo il silenzio. La contemplazione, o la meditazione (termini occidentali e orientali non sono in conflitto, come qualcuno vorrebbe farci credere), perché la musica questo è: sostituzione di sé con la contemplazione, per un momento tu resti finalmente muto e attraverso la musica ti appare il silenzio. O, come dice Umberto (viene difficile chiamarlo Contarello, non perché lo conosca, bensì perché ha scritto un “personaggio” nel quale è impossibile non identificarsi in qualche modo): “Quando qualcosa ti arriva all’anima, infatti, non ne parli. Semmai piangi”: il rumore dei tuoi pensieri che sgorga via, è così che appare il mondo (alla fine del terzo atto, ma ne riparliamo). È a causa di questo “silenzio” (dovrebbe essere un “LA” suonato con la sordina, guarda “là”) che ho deciso di non cliccare al link della preview del film. Se, come credo, è un film che punta al silenzio, va visto in sala. Non, come dicono alcuni esaltati, per la visione "comune" (che orrore la visione comune), ma perché non puoi raggiungere il silenzio e restare sul divano di casa tua: la “magia” del cinema, quando un film “cammina”, la cogli nel momento in cui esci in strada e il rumore del mondo finalmente ti appare attraverso il tuo silenzio, la “magia” del cinema è tutta fuori dalla sala e dal film, come la “magia” della musica ti appare nel momento in cui essa finisce. E, tu, piangi.

Infine, perché questo film è una bugia? Umberto insiste molto sulla melodia contrapposta alla melodia, sulla "scena" contrapposta alla struttura: “Ho cercato di scrivere scene che non servissero a niente” (è una frase presa dal trailer, ripeto, è un film che va visto in sala), così come nell’intervista a Rolling Stone, Umberto dice: “Ci sono le musiche che hanno una predominanza melodica, come anche i film. Non armonica, cioè strutturale. Allora, non avendo mai capito questa cosa dei tre atti, ho pensato: ecco che cosa faccio io, scrivo in una libertà controllata per preservare una melodia”. Mi ricorda parecchio la “controteologia”, come la chiamò Manlio Sgalambro, di Melchor Cano, di Jacques Bénigne Bossuet, di Francisco Suarez. Contarello (in questo caso uso il cognome) la conosce altroché, la struttura. Come sa che essa va nascosta. Apparentemente suicidata. Inabissata o ancora meglio nascosta nello spazio siderale. Mettete insieme le frasi (tratte entrambe dal trailer, o come si chiamava una volta “anteprima” o “prossimamente”) “Ho scritto solo scene che non servono a niente” con “Una storia è bella o è brutta”. Ma chi è che scrive così? Chi è che apparentemente, da bugiardo, scrive solo scene che non servono a niente e che sono belle o brutte? Chi è che si nasconde dietro il nichilismo che abbiamo bisogno di attraversare perché ci appaia qualcos’altro? Perché ci appaia il silenzio? Esatto, proprio lui. Che appare in scena con una suora. Potete chiamarlo come volete, io lo chiamerò alla solita maniera: Dio. Dove ha nascosto la struttura Contarello? Il primo atto e il passaggio al secondo erano in “Parole, operetta per piano e voce”. Con “L’infinito” siamo subito dopo la scena centrale, dopo l’apparente “fallimento”, quando cala il silenzio e – come dicono gli hollywoodiani – ci si lecca le ferite davanti al falò e si cerca una via d’uscita, si contano le pallottole, si evoca il passato aspettando l’aurora, aspettando che in qualche maniera riappaia l’alba, il futuro. Non ho visto il film, ma mi sembra che da qualche parte qualcuno abbia parlato di “agguato che aspetta il protagonista”. Quando la storia si rimette in moto per “camminare” verso quel luogo dove tutti siamo diretti, verso la morte e la resurrezione, verso il ritorno a casa. Perché cinema e Dio sono fatti così. Lavorano sulla sospensione dell’incredulità. Che sia il viaggio dell’eroe o la struttura in tre atti camminano verso il silenzio, come John Wayne che si allontana a cavallo mentre il campo della macchina da presa si allarga e appare l’orizzonte, l’aurora. L’alba, il silenzio. Quando si sentono soltanto il passo calmo del cavallo, l’odore di cuoio, la terra bagnata, il muschio, la magnolia, il crepitacolo di un crotalo in lontananza. E lo sciabordìo dell’acqua nella borraccia che si riflette nei nostri occhi mentre il sole sorge tremolante. Aspettando il terzo atto di questa trilogia di Umberto Cantarello, intanto, ci vediamo in sala. E chi non viene non può entrare nel saloon.

