Avevo 10 anni quando mi approcciai al primo disco dei Depeche Mode; ero alla Fnac di Firenze e mio zio, grande mentore musicale, mi disse: “Tieni, questo è bellissimo. Il loro migliore”. Aveva in mano “Ultra”, che giovedì scorso, 14 aprile, ha compiuto 25 anni, un quarto di secolo. Ognuno ha le sue condanne, certo, ma ascoltare a 10 anni questo album per me è stato uno stravolgimento, e dopo quasi 15 anni (visto che ho la stessa età del disco) faccio ancora fatica a collocarlo, a declinarlo secondo l’uno o l’altro aspetto, a giudicare quale passione prevalga in quell’amalgama di suoni e di parole. I 4 anni che vanno da “Songs of faith and Devotion” (1993) e questo album sono stati deliranti, l’emblema della perdizione: Alan Wilder, tastierista, “mente elettronica” della band, esce dal gruppo, Martin Gore soffre di alcolismo, Andrew Fletcher di stress da tour, ma soprattutto il frontman Dave Gahan in piena tossicodipendenza che, dopo vari tentati suicidi, entra in coma per ben due minuti dopo un’overdose di speedball e riesce a risvegliarsi per miracolo. Durante tutto questo tempo la sola anima compositiva del gruppo rimane Martin Gore, un mostro della musica, che tira fuori testi e musiche dell’album nascente. Una band allo sfacelo, insomma. E Gore si porterà sulle spalle tutto il peso di questi anni, rimettendo insieme i pezzi, e portando il gruppo a produrre uno dei dischi più introspettivi della loro carriera.
No, non potevo iniziare il mio cammino nel mondo dei Depeche con “Violator” o “Music for the Masses” ( i due album probabilmente più di successo della band inglese). Bisognava iniziare col difficile, con quel sound dissonante, sferzante, con quella lama a doppio taglio di Barrell of a Gun, che apre l’album:“Do you mean this horny creep/ Set upon weary feet/Who looks in need of sleep/That doesn't come”. Un incubo, un tormento che abbaglia ogni certezza, che diniega ogni via d’uscita; pesantezza che attanaglia Dave Gahan nel videoclip del pezzo: si rigira continuamente nel letto, girovaga in un labirinto con indosso una pelliccia bianca avvolta da lucine di Natale, trema continuamente, soffia bolle di sapone, scende le scale a gattoni. Un pazzo, senza connessione col reale, un martire dell’eccesso (“a vicious appetite/ visits me each night/ and won’t be satisfied/ won’t be denied”, recita il pezzo). “Barrell of a gun” è la disperazione di Dave Gahan, è l’espressione di una caduta senza spiragli di rinascita.
Una discesa agli inferi che non pare avere risalite durante tutto l’album, se non nel suono un po’ più vellutato e dimesso dei brani successivi, ma pur sempre dai toni malinconici. Malinconia e cupezza sono il file rouge di tutto il disco, ed anche l’amore è letto nei suoi aspetti torturanti (“Love needs his martyrs/ needs his sacrifaces/ they live for your beauty/ and pay for the vices”). La voce di Gahan si fa più limpida e soave, salvo poi riprendere prepotenza e aggressività negli altri due singoli dell’album (“It’s no good” e “Useless”): entrambe dirette imperativamente ad un’amante che pare lontana, ma di cui si conosce tutto così troppo bene; questa non ha vie di scampo:
“Don't say you want me
Don’t say you need me
Don’t say you love me
It’s understood
Don’t say you’re happy
Out there without me
I know you can’t be
‘Cause it’s no good”
(Depeche mode, It’s no good)
Un tono accusatorio pervade invece “Useless” quando Gahan urla alla telecamera nel videoclip “All your stupid ideas / You’ve got your head in the clouds / You should see how it feels / With your feet on the ground”. Il cantante è iroso, certo, ma più sano; ha un aspetto nuovo, più pulito senza barba e con capelli corti, fuori dal look glam degli anni della perdizione. E la valvola di sfogo è un’amante a cui urlare tutte le proprie frustazioni. Così l’album si scioglie in brani più misurati e morbidi, nei quali è sempre la passione amorosa ad avere il dominio, ma stavolta riletta secondo una chiave nuova: quella della resurrezione, una legge universale che tutto lega, che ci sospinge ad una ricerca ineluttabile. E infatti l’amore è letto nei due brani di chiusura come un fuoco che tutto arde, un bagliore di luce spirituale, una speranza di contro all’inquietudine e oscurità che avevano pervaso i brani precedenti: “Like a moth on love's bright light/ I will get burned each and every night (The bottom line)” ; “And the spirit of love/ Is rising within me/ Talking to you now/ Telling you clearly/ The fire still burns” (“Insight”).
Che la discografia dei Depeche Mode sia composta da magnificenze è fuor di dubbio, ed è sintomatica la miriade di ascoltatori che la band riesce a captare: dagli amanti della dance anni ‘80 al rock anni ‘90, fino all’elettronica minimale degli anni 2000. I Depeche Mode hanno saputo incarnare una pluralità di stili estetici e musicali, spesso in contrasto tra loro ma uniti da quel rivoluzionario sound elettronico di cui portano l’effige. Ogni album è un compartimento stagno, collocabile in un momento preciso della loro storia discografica: non trova metro di misura esterno, lo stadio un percorso senza direzioni ultime, senza progressi o involuzioni, ma con la continua volontà di innovarsi e superare se stesso. “Ultra” è probabilmente il loro album più eccentrico, perché essenzialmente eclettico: tiene insieme diverse anime e stili musicali (dal pop, al rock, al blues), i lasciti delle sbandate degli anni passati e un forte desiderio di rinascita. Ma soprattutto è il sintomo di un grande atto di lealtà reciproca tra i membri della band, che dopo 4 anni di isolamento, di silenzio e di cadute non scelgono la via dell’abbandono, ma sanno rialzarsi e aprire la strada a un nuovo inizio.