Non è impresa semplice parlare di una serie imperdibile perché mentre ne si scrive la recensione, l’unica certezza è quella di star facendo perdere tempo al lettore che dovrebbe, invece, correre su Netflix a scatola chiusa e pigiare play, in questo caso, su Drôle - Comici a Parigi. Con buona pace de La Fantastica Signora Maisel (Prime Video) e pure della meno fortunata I’m Dying Up Here (oggi come oggi introvabile in streaming), finalmente è nato un gioiellino a puntate, sei in totale, che racconta la stand up comedy in modo credibile e attuale. Le rende giustizia. E non lo fa parlando degli “arrivati”, sempre ammesso che soprattutto in Italia ce ne siano davvero, ma di quattro poveracci pressoché under 30 che si esibiscono ogni sera nello stesso pulcioso locale, quel Drôle che dà il titolo alla serie, appunto, trovandosi poi a raccogliere i centesimi donati dalla magnanimità dello scarso pubblico in sala. Far ridere la gente è davvero un lavoro di merda, sì. Però anche molto divertente. Oltre che frustrante, irto di complicazioni nei rapporti interpersonali (per non parlare di quelli sentimentali!), guerre tra poveri per aggiudicarsi cinque minuti su un palco davanti a spettatori che hanno di meglio da fare, scorrettezze e grandi alleanze (temporanee). Se vi siete sempre chiesti cosa succeda nel backstage di una serata a microfono aperto, ora avete la risposta: probabilmente nemmeno c'è un "backstage", si prova direttamente nei cessi del locale. E se, invece, non ve lo siete mai chiesti, eccovi la possibilità di scoprire l’incredibile universo di bassezze e colpi di culo di cui finora avevate beatamente ignorato l’esistenza.
Prima cosa: Drôle è attuale. Ambientata nella Parigi dei giorni nostri, ci regala l’opportunità di non vedere la stand up comedy come qualcosa di divertente che accadeva negli anni Sessanta (la Fantastica Signora Maisel inizia la sua carriera nel ‘58) o nei gloriosi Settanta (I’m Dying Up Here, la serie prodotta da Jim Carrey). No, Drôle tratta la stand up comedy come un organismo vivente hic et nunc, non qualcosa che è stato, ma qualcosa che è. Eppur si muove, insomma. Nonostante gli special alle volte mediocri, altre appena sufficienti che fanno capolino di quando in quando sulla piattaforma della grande N.
A garantire il valore di Drôle, c’è la penna di Fanny Herrero, creatrice di quella Dix pour cent (qui da noi notissima come Chiami il mio agente!) che oltre a fregiarsi di special guest come Monica Bellucci, Isabelle Huppert e Juliette Binoche, ha avuto così tanto successo che ora ogni Paese, dalla Gran Bretagna all’Italia arrivando alla Grecia, alla Polonia e alla Corea del Sud ha acquistato i diritti per farne un remake local (nel nostro Bel Paese ci penserà Sky).
La Herrero, dunque, ha già dato prova di saper scrivere una serie niente male, e per il suo secondo progetto Netflix, potendo scegliere praticamente qualunque cosa dall’iperuranio alle vecchie fattorie, ha voluto dare vita al mondo della stand up “underground”, mettendo giù di suo pugno tutto: personaggi e loro archi narrativi, relativi monologhi sul palco e varie traversie. L’autrice ha anche personalmente scelto i suoi quattro protagonisti e, che tutte le divinità supposte siano lodate, ha preso attori che nulla avevano a che fare con il mondo della comicità. Qui in Italia, come minimo, si metterebbe nel cast una star di TikTok o una Tess Masazza qualunque con la vana speranza di attirare il pregiato pubblico giovane. Pubblico giovane che, risaputamente, ha molte difficoltà a seguire qualcosa che porti via più di 14 secondi. Stessa difficoltà che hanno, del resto, i loro influencer di riferimento.
Ecco, ogni scena di Drôle trasuda grande passione. Verso il mondo che descrive, ovvero quello della stand up comedy degli wannabe che forse non ce la faranno mai e le sue dinamiche interne, studiate con molta attenzione e sottigliezza prima di sbatterle in sceneggiatura. Niente è fatto “tanto per” e anche per questo i personaggi risultano così verosimili che, tempo cinque minuti dall’inizio della serie, i loro destini diventano un fatto personale per lo spettatore. Falliti o vincenti che siano, risulta impossibile non empatizzare. Anche perché, pur nati per subire, non si lasciano vessare dalle alterne fortune: sono animati dal sacro fuoco della battuta e per trovare quella perfetta, sono disposti a imbarcarsi in tre-quattro lavori differenti durante la giornata affinando mentalmente le punchline mentre pedalano sushi delivery. Oppure a pippare fino a rovinarsi (definitivamente?) la carriera che ancora non hanno perché gli esseri umani, comedian o no, sono prima di tutto coglioni patentati. Per natura, nasciamo così.
Impossibile proseguire senza fare spoiler: concludiamo aggiungendo solo che con quattro personaggi scritti così bene, tra egoismi e contraddizioni, Drôle sarebbe stata imperdibile anche se ambientata in un ufficio postale. Qui ha semplicemente il merito di puntare l’obiettivo su un universo ancora vergine: il sottobosco della stand up degli wannabe che di sicuro, con buona pace della Fantastica Signora Maisel, non ottengono serate grazie a deliziosi stufati sfornati in casa. La stand up, come del resto la vita, è un ambiente crudele che in cambio ti dona un paio di applausi e molti moltissimi calci in faccia. Finché, se si è parecchio fortunati, arriva quella svolta che può durare una vita o quindici minuti. And isn’t it ironic? Correte su Netflix prima che ne facciano un remake italiano alla Troppo Frizzante di Boris con i “comici” di LOL. Per cortesia.