Dei Placebo ci eravamo quasi dimenticati. Nove anni dall’ultimo album, più di vent’anni di carriera alle spalle, chiusi nelle gabbie di un rock ormai fuori mercato se non per gli irriducibili sempre noti, e se la band britannica appartenga a questa schiera ne potremmo discutere. E che i Placebo non siano i Radiohead quanto a sperimentazione musicale è lapalissiano: c’erano tutte le basi e condizioni per ripetermi ad oltranza che “Never Let me go” (uscito il 25 marzo) sarebbe stato un album divisivo, della serie “o la va o la spacca”. Erano già pronte le etichette da appiccicare sulla copertina: “Placebo finiti”, “fanno sempre la stessa roba”, “non hanno più niente da dire”.
Sono un tipo prevenuto di mio, questo è certo, ma “Beautiful James”, il primo singolo dell’album aveva assecondato i miei pregiudizi: canzone un po’ semplice, drittona, con qualche tastiera stile 80, ma a livello vocale il solito Brian Molko che gioca sempre sulle stesse linee vocali. Insomma, i Placebo, sì, ma niente di nuovo. Però i veri artisti hanno questa dote: più li rumini, più emergono nuovi connotati e più ti immergono in spazi apparentemente già sondati, ma che rivelano un abisso di suggestioni. Nell’ascolto di quest’ultimo album ti esponi ad uno schiaffo continuo, fatto di un rock esplosivo e allucinato, un’elettronica dissonante dai tratti metallici, e soprattutto testi dritti al punto, senza rigiri di parole, che sputano in faccia alla favola.
Nessuna rivoluzione di stile, certo, ma Molko ci parla di noi, delle nostre vite disperse nell’immagine (“a joke is another way of telling the truth”), fatte di sovraesposizione (“I am sorrounded by spies”, “I’ve been visible too long”), di paranoie e circoli viziosi (“the search of meaning is killing me”). Il rock dei Placebo può ancora parlarci di perdizione senza essere lagnoso, in barba all’egemonia del mito rapper tutta finzione che si vanta della strada e dei vizi annessi: Molko ci mostra che le “medicine” tanto ostentate dal nostro mondo iperattivo e fittizio sono solo il riempimento mal digerito di un’assenza (come ascoltiamo in “Happy birthday in the sky”). Ma non ci impanichiamo troppo, perché tutto ciò che abbiamo creato e che adesso odiamo, i demoni da cui siamo posseduti, possono dissolversi in un cambio di rotta (“a change of enviroment”), una liberazione che è assieme sparizione e riscoperta di un sé autentico e vero. Senza critiche moraleggianti né speranze messianiche, i Placebo sono politici senza disvelarlo troppo, sono fedeli al proprio stile ma senza scadere nella ripetizione dei soliti schemi.
Il mantra con cui ci ammantiamo nel mondo della cultura e della musica da anni è quello dell’originalità. Più passa il tempo più ci aspettiamo da una band o un artista quel surplus di novità che colpisce l’orecchio e smuove l’animo in un colpo solo: qualcosa di non riducibile ai lavori passati, uno stacco che sproni senza necessariamente toccare l’apice di una rivoluzione. D’altro canto, ci sono il pop e il mainstream dietro l’angolo sempre in agguato, e il dito della critica è un fucile puntato.
I Placebo non strizzano l’occhio a nessuno, invecchiano e continuano a parlare dei nostri disagi esistenziali, senza esaltazioni né pessimismi. Non è certo il genere che conta, ma la capacità di parlare alle nostre vite e darne un senso. Niente a che vedere con le dispense di confettini mielosi o gli incitamenti alla perversione che ormai riempiono la nostra cultura (e la nostra musica) dell’immagine. Meno stories e più parole. Con buona pace dei necrofori del rock.