Che droga e musica siano legate a doppio filo (rosso) non è solamente una leggenda, ma un abbinamento oscuro e infido, caratterizzato da vite di eccessi, spesso mitizzate, che a volte finiscono in tragedia. Ne è un caldissimo esempio la recente morte di Taylor Hawkins, il "fratello di una madre diversa", come lo chiamava il frontman Dave Grohl. Lo storico batterista dei Foo Fighters è deceduto a 50 anni nella sua camera d'albergo, a Bogotà (Colombia), tappa del loro tour in America Latina, che dopo il nefasto evento non proseguirà (cancellata quindi anche la data italiana, Milano 12 giugno). Un'ora prima di esibirsi, aveva assunto un cocktail di sostanze stupefacenti (ben dieci), tra marijuana, antidepressivi, benzodiazepine e oppiacei, e il suo cuore, secondo quanto appreso dall'autopsia, non avrebbe retto.
Di fatto Hawkins - tra i musicisti più talentuosi e amati nella storia del rock recente - è soltanto l'ennesima vittima di quella trappola ammaliatrice che negli anni ha rapito gli artisti più disparati (non soltanto rocker), senza tregua né ritegno, a cominciare da quel maledetto Club 27 (da Kurt Cobain a Jim Morrison) che ne ha risucchiati, nel suo vortice, a manetta. Così, per meglio identificare il punto di contatto tra musica e sballo, abbiamo intervistato chi dalla droga è stato perseguitato per anni, alias Fabio Cantelli, ospite e poi portavoce di San Patrignano - il suo nome negli ultimi mesi è stato spesso e volentieri associato proprio alla docu - serie cult di Netflix, "Sanpa" - nonchè noto scrittore e vicepresidente del gruppo Abele, l’onlus fondata da Don Luigi Ciotti, che si occupa, tra le altre, per l'appunto di tossicodipendenza.
Per cui, nella nostra lunga chiacchierata, ci siamo addentrati in una profonda disamina, partendo dalla recente dipartita del batterista dei Foo Fighters, e toccando poi altri miti assoggettati alla dipendenza, da Kurt Cobain al Duca Bianco (David Bowie), finendo per risalire a Platone, il primo a identificare la musica come una droga vera e propria, e smentendo, nel contempo, l'ormai logora correlazione tra droga e creatività. Spazio finanche a un ammonimento, rivolto agli adolescenti, facile preda dell'antica malia, tentati dall'ovvia emulazione presa in prestito dai trapper.
Come hai reagito alla morte di Taylor Hawkins? Pare che il batterista dei Foo Fighters avesse assunto dieci sostanze diverse prima del decesso.
Sinceramente non mi ha toccato perché non conoscevo Hawkins e i Foo fighters se non come derivazione dei Nirvana, che pure ho solo sfiorato: quando uscì “Nervermind”, nel ’91, avevo 29 anni, ero appena rientrato a Sanpa dopo una devastante ricaduta e avevo un virus, l’Hiv, che non lasciava scampo. Il mio Pantheon musicale insomma – quello che ti formi tra l’adolescenza e la prima gioventù – era già composto e senza più posti liberi. Così se sono rimasto impassibile alla notizia della morte di Taylor Hawkins, mi ha invece commosso quella immagino per cause naturali di un altro batterista, Charlie Watts, dato il posto preminente occupato dagli Stones nel suddetto Pantheon. Della notizia della morte di Hawkins mi ha colpito solo un’apparente incongruenza, cioè che nel genere di droghe rinvenute nel cadavere non ci fosse della cocaina, il che per una morte a Bogotá è abbastanza strano. Ma su questo influisce certo il mio particolare rapporto con quel tipo di droga, e il sogno coltivato a ventidue anni di trasferirmi in Sudamerica tra Colombia e Bolivia e cercare là l’estasi definitiva.
La generazione di Hawkins è ancora quella della droga come aiuto alla creatività?
Non lo era già più per la mia. Essendo nato nel 1972, Hawkins aveva compiuto diciott’anni nel 1990. Quando li ho compiuti io, dieci anni prima, la relazione tra droga e creatività era già un mito logoro, di lungo corso, leggenda di fratelli maggiori se non di padri. Per noi che siamo nati da noi stessi alla fine dei Settanta con il punk e la new wave, il binomio droga e creatività rimandava a immagini che non ci appartenevano: il “flower power” e la rivoluzione psichedelica, Woodstock e l’isola di Wight, i Beatles che compongono “Sgt. Pepper” e gli Stones che rispondono con “Their satanic majesties request”, i viaggi in India ma pure i trip senza ritorno come quello che ghermì Syd Barrett, oscuro genio dei Pink Floyd. Una stagione durata poco, a conti fatti, se si tiene conto che l’idillio del “peace and love” finì un giorno del dicembre del ’69 nell’angoscia di Altamont, quando a un concerto degli Stones un ragazzo di colore venne accoltellato e ucciso da una banda di Hell’s Angels, energumeni motorizzati inopinatamente chiamati a fare il servizio d’ordine. Nel frattempo quell’estate era morto di droga Brian Jones e, in stretta sequenza, l’avrebbero seguito Jimi Hendrix, Janis Joplin e, nel 1971, Jim Morrison. Negli anni Settanta la relazione tra musica e droga era ormai iscritta nella mitologia dell’eccesso e non più in quella della creatività e dell’ispirazione artistica. La Musa aveva calato la maschera per mostrare un volto di Medusa.
Riesumando una tua intervista di qualche tempo fa, sostenevi, infatti, che la correlazione tra droga e creatività non esiste. Eppure per molti rocker la droga è stata un carburante fondamentale.
Posto che non sono un musicista, ma mi è capitato un paio di volte di scrivere sotto l’effetto della coca con risultati tra il desolante e l’esilarante, su questa presunta correlazione andrebbe fatta un po’ di chiarezza. Il primo a parlare non di musica e droga ma della musica come di una droga è stato Platone. Nei celebri passi del terzo libro della Repubblica, la poesia e la musica vengono passate al vaglio di una severa critica pedagogica in quanto arti nocive alla buona formazione del cittadino. Simile cantonata dipende dal fatto che il grande Platone voleva realizzare una comunità compiutamente politica, basata sulla ragione e non più sul mito, ma sacrificare il mito – avrebbe spiegato secoli dopo Nietzsche – significava sacrificare la vita stessa. Nella Nascita della tragedia, opera che scandalizzò i mondi accademici perché faceva a pezzi l’idea di una Grecia tutta forme, misure e armonia, Nietzsche mostra il caos che brulica nelle nostre vite ma soprattutto come una vita che rifugga il caos si preclude anche la possibilità d’essere felice. Questa felicità ha per Nietzsche un nome preciso: Dioniso, il dio della danza, della musica e della perdita di sé. Ricordo una frase che mi colpì moltissimo, quando a sedici anni scoprii due incarnazioni di Apollo e Dioniso, cioè David Bowie e Mick Jagger: «solo partendo dallo spirito della musica possiamo comprendere la gioia per l’annientamento dell’individuo». Si potrebbe anche dire che il mito richiede il rito e il rito scandisce il ritmo: la musica non necessita di additivi chimici o naturali perché è la via immediata all’assoluto, cioè alla condizione che ciascuno di noi ha vissuto nel grembo materno, quando eravamo esseri certo incoscienti ma totalmente senzienti, sia nel senso del percepire che in quello dell’udire: l’udito è il primo senso del neonato. Questo vorrà pur dire qualcosa del fascino che la musica esercita da sempre sul genere umano. Il nascituro sente il battito del cuore e forse anche la voce della madre. Il battito sarà la base del ritmo e della danza, la voce ovviamente quella del canto.
Intanto, nella storia del rock, di vite al limite ne potremmo citare a centinaia. Un esempio recente, Peter Doherty (ora “pulito”), finito sulle pagine dei giornali più per i suoi eccessi che per la sua musica. Un lungo cammino il suo, fatto anche di ricadute. Oppure a ritroso nel tempo, il tuo amato David Bowie, che ha combattuto a lungo contro la dipendenza.
Come anticipi, si parla più degli eccessi di Doherty che della sua musica. Con tutto il rispetto di Doherty, di cui pure ignoro la produzione, non credo sarà incluso nel ristretto numero di musicisti che hanno segnato un’epoca. A differenza appunto di David Bowie e anche di John Lennon, incappati entrambi in dipendenze da droghe, il primo da coca, il secondo da eroina. Esperienze che fanno capolino in certe loro canzoni: penso al verso “I need a fix ‘cause I’m going down” di “Happiness is a warm gun” o alla molto credibile descrizione di una crisi d’astinenza di “Cold turkey”, dove il “tacchino freddo” non è che la pelle d’oca del corpo ipersensibile e quasi scorticato durante le crisi d’astinenza. Oppure, passando a Bowie, alla cocaina citata en passant in “Station to station” e all’immagine del Major Tom esiliato dallo spazio e ridotto a junkie in “Ashes to ashes”. Bowie e Lennon – che erano peraltro amici – si sono salvati dalla tossicomania grazie alla musica, che era la loro ragion d’essere, la loro passione dominante, cioè la cosa facendo la quale si sentivano radicalmente vivi. È questa passione a connotare il grande artista, che vi si applica con dedizione quasi feroce: Bowie e Lennon erano persone rigorose, capaci di autodisciplina, a dispetto delle mitologie sul loro conto, cioè animate da quella passione rovente che salva dalla ripetitività, dalla banalità, dal ricorso all’abilità puramente “tecnica”. Ma questo vale per chiunque. Se incontri le droghe pesanti quando già sei alla ricerca di te stesso, della tua ragion d’essere, non ci sarà droga in grado di deviarti dal cammino. Io ho avuto la fortuna d’incontrare la letteratura, la filosofia, la scrittura prima dell’eroina: senza quelle passioni dominanti non sarei mai uscito dalla dipendenza. Quanto al mio incontro con Bowie… Più che un modello è stato un ideale e insieme un archetipo, dato che l’incontro con la sua immagine avvenne molto presto, nella pubertà dei dodici anni. Quando, adolescente, passai dall’immagine all’immaginazione e scoprii che mi piaceva tutto di lui: la sua musica, il modo in cui si vestiva, la sua grazia e eleganza, il suo corpo magro e il suo viso irriducibile ai canoni e ai “generi”. Io non sarei mai potuto diventare quello che sono senza David Bowie. Per questo non mi ritengo un “fan” e nemmeno un “esperto”: nell’adolescenza Bowie mi ha dato il coraggio di esplorare la mia diversità, di non sentirla come “anormalità”. Perciò mi ritengo, di fatto, un suo alter ego.
Ma tu cosa cercavi nella droga che la realtà non poteva restituirti?
L’assoluto del grembo materno, quando ero, come tutti, acqua nell’acqua. Ma questo l’ho scoperto solo molti anni dopo essermi liberato dalle dipendenze dall’eroina e dalla cocaina. La nascita è un trauma spaventoso perché ci strappa dalla beatitudine dell’abbraccio totale, del nutrimento, del ritmo del cuore materno, cioè da quella condizione che gli esseri umani perlopiù trascurano, anche se è a proprio quella a cui alludono quando pronunciano la parola “amore”. Le droghe pesanti sono il più formidabile surrogato di quel sentire assoluto riprodotto dalla cocaina in forma di estasi e dall’eroina di deliquio. Nella vita, prima che nella “realtà”, cerchiamo il paradiso, ma il paradiso è alle spalle, perduto per sempre. Cosa fare allora, uccidersi? No, si tratta d’imparare ad amare il limite, ossia amare la vita come luogo del finito, luogo dove tutto ciò che nasce prima o poi muore e proprio per questo luogo dove esistere – se non ci fermiamo ai desideri impossibili dell’adolescenza – può rivelarsi un’appassionante avventura, una fonte costante di soprese, meraviglie, smarrimenti e stupori. Se poi riesci a vivere tutto questo alla luce della passione che ti tiene in vita, il fascino delle droghe si scioglie come neve al sole. La vita stessa, a certe condizioni, è il più straordinario degli stupefacenti.
Da qualche tempo gli adolescenti assumono metadone o codeina diluiti con acque e altre bevande, una pratica che hanno appreso da video e brani trap. È dunque la trap l’ultima reincarnazione del trinomio “sesso, droga e rock’n’roll”?
Per noi che eravamo tossicomani e non semplici tossicodipendenti, cioè monaci intenti giorno e notte a sacrificare e sacrificarci per il nostro dio, il trinomio “sesso, droga e rock’n’roll” era una patetica banalizzazione ma soprattutto una falsità. Se diventavi un monaco della droga non c’era più spazio per il sesso e nemmeno per la musica: si riducevano a esperienze di contorno, decorative e insignificanti. Oggi però il rapporto con la droga è stato a sua volta banalizzato: le droghe sono state ridotte a merci come le altre e come le altre soggette alle leggi del “mercato”: l’accessibilità, cioè prezzi alla portata di tutti, e la reperibilità. Non c’è più nessuna epica nel rapporto con la droga “integrata” perché non sono più richiesti quei salti nel buio cui ti costringeva la droga di trincea: vite da tossico che erano anche vite da ladro, da prostituto, da rapinatore, da detenuto. Esperienze che, beninteso, non rimpiango ma che mi hanno insegnato molto di me stesso, dei miei limiti e delle capacità su cui dovevo puntare per uscire dal pantano. Quello che mi fa tenerezza e pena degli adolescenti di oggi è che non si rendono conto che il loro trasgredire o quantomeno provocare è un prodotto del “mercato”, una strategia decisa sulle loro teste. Per fortuna ce n’è una parte che se ne rende conto, che vive il dramma di una libertà accessoria, senz’anima, frutto del matrimonio d’interessi tra liberismo economico e crimine organizzato. Ne ho incontrati tanti nei licei di mezz’Italia dopo “Sanpa”, chiamato da insegnanti che percepiscono il dramma di quest’adolescenza e si chiedono come riuscire a parlarle. Insieme riflettiamo sull’adolescenza come seconda nascita, come stagione dove si decide tutto e loro, spero, traggono da quegli incontri quel briciolo di coraggio necessario a esplorare la propria autentica diversità, irriducibile a qualsivoglia legge, modello o ipnosi del “mercato”. Il coraggio che mi diedero Nietzsche, Antonin Artaud e, ovviamente, David Bowie.
Sei anche vicepresidente del Gruppo Abele (onlus fondata da Don Ciotti): di cosa ti occupi?
Mi prendo cura ormai da 17 anni della comunicazione pubblica di Luigi – un fratello maggiore per me – che due anni fa, dopo il lockdown, ha voluto assegnarmi il delicato ruolo di suo vice con l’incarico di ripensare certi paradigmi del lavoro sociale, il suo modo di guardare e interpretare il mondo. Modo che si è gradualmente uniformato alle misure, riduzioni e specialismi del dominante paradigma “tecnocratico”, ragion per cui il “sociale” è diventato un fornitore di servizi anche encomiabili ma che non incidono più nella carne della società e nelle decisioni della politica, col rischio d’essere funzionale al sistema che vorrebbe cambiare. Non sono però l’unico vicepresidente del Gruppo: a condividere questo delicato impegno c’è anche una giovane e formidabile donna, Francesca Monza, che ha molte doti che mi mancano, a cominciare dal senso pratico, pur avendo anche lei alle spalle studi di filosofia.
Nel tuo libro, “Sanpa, madre amorosa e crudele” (ristampato recentemente da Giunti) mi ha colpito la tua posizione molto netta sulla possibilità di legalizzare le droghe dette pesanti. La droga, compatibile con la vita sociale, diventa ancora più pericolosa?
Ciò che pensavo e temevo quasi trent’anni fa, quando scrissi il libro, si è in sostanza realizzato. La droga mercificata è di fatto una droga legalizzata perché nel regime del liberismo economico la legge la detta il mercato, mica la politica. Quello che sta avvenendo in Ucraina non è che l’ennesima conferma della dittatura del profitto. Posto che chi assume droghe non credo commetta alcun reato – a meno che non obblighi altri ad assumerle – la droga pesante “integrata”, impiegatizia e perlopiù invisibile a occhio inesperto – perché chi oggi assume eroina a soli cinque euro non ha più i comportamenti e le sembianze del tossico – ritengo sia un orrore. Primo perché è una non-esperienza come tutte quelle offerte dal “mercato”, che si regge non a caso su meccanismi di dipendenza, suscitando desideri a cui si resta impigliati. Secondo, perché la dipendenza da droga è in sé micidiale, a prescindere dalla vita a cui ti costringe, perché le droghe pesanti irrigidiscono e infine atrofizzano i canali emotivi, cioè le vie attraverso cui fluisce in noi la vita. Se quei canali si chiudono si diventa poco a poco organismi che vivono ma non sentono, corpi non cadavere ma disanimati e io credo ci sia un’abissale differenza tra vivere e sopravvivere. Se prendo molto sul serio gli incontri con gli adolescenti nelle scuole di mezza Italia è perché credo si meritino una vita intensa e vera, non quella liofilizzata, deprimente e impropria che appresta loro la società del “mercato”.