Prima c’erano Sly, Schwarzy e Chuck. Poi è arrivato Bruce Willis. La stiamo facendo sbrigativa, sia chiaro – gli anni ‘80 dell’action a stelle e strisce meriterebbero un dossier –, ma le prime immagini di Die hard, uscito nelle nostre sale come Trappola di cristallo, segnano un solco. John McClane (Willis) ha paura di volare. Mentre l’aereo atterra, la sua mano stringe forte il bracciolo della poltrona. Proprio come potrebbe fare uno di noi. Uno qualsiasi. Poi John spaccherà tutto e riuscirà a uscire quasi indenne da un inferno di cristallo ancora più esplosivo e claustrofobico di quello originale, ma McClane non è un supereroe in carne ed ossa. Semmai è un uomo capace di eroismi. Costretto all’eroismo.
Ora riavvolgiamo il nastro. Die hard venne proiettato la prima volta, negli States, il 12 e il 15 luglio del 1988. In sala fece subito un bel successo, ma saranno gli anni successivi a sottolinearne la strana natura di “Christmas classic”. Il Natale, in Die hard c’è, ma lo si nota appena. Ok, al trentesimo piano del Nakatomi Plaza i dipendenti della Nakatomi festeggiano l’imminente nascita di Gesù, ma il clima natalizio si esaurisce qui. La storia, da subito, affonda in una notte senza fine. Scura e oppressiva. Fuori batte una “black rain” senza speranza. Dentro il palazzone in cui ci sono John McClane (isolato da tutti gli altri) e la moglie Holly (Bonnie Bedelia), intenta a brindare insieme ai colleghi di ufficio, fa irruzione un commando di terroristi capitanato dallo spietato Hans Gruber (Alan Rickman). Fuori, ad avvolgere tutto, teoricamente c’è Los Angeles. Diciamo teoricamente perché McClane, le guardie della security del Nakatomi e tutto l’ufficio festeggiante, dal mondo esterno ricevono scarso aiuto. Giusto il sergente Powell (Reginald VelJohnson), talvolta utile come un coltello senza lama, fa qualcosa di concreto, ma per il resto tutti, dentro il palazzo, sono costretti a fare i conti sia con Gruber che con una Los Angeles sprofondata nelle tenebre. Assente.
Nel 1988 Hollywood rivede, ancora una volta, le regole del proprio modo di intendere l’action. Die hard non è una rivoluzione copernicana, tuttavia… Stallone nel 1988 è ancora alle prese con Rambo (il terzo capitolo, forse il peggiore della saga), Schwarzenegger, oltre al buon Danko (l’action di Walter Hill spinge Arnie oltre i muscoli e le pallottole), tenta la carta comica con I gemelli, ma il cambio di passo non convince appieno. Norris, infine, sguazza e si diverte in un mondo tutto suo (per lui il 1988 significa Rombo di tuono III). In questo contesto, Die hard, girato dallo specialista John McTiernan, è una boccata d’aria fresca. Anche perché, oltre a milioni di spari, qualche chiazza di sangue e un ascensore impazzito, il film ci presenta un “uomo fragile, ma capace di eroismi” brutalmente diviso in due. L’impresa del Nakatomi Plaza, in cui alla fine strappa la moglie dalle grinfie di Gruber in persona, è solo quella più evidente. C’è anche un sottotesto, però, che via via si fa testo fino ad urlare la propria urgenza: il poliziotto McClane sarà coraggioso e belloccio, ma con la moglie ha sbagliato tutto. Per cui, ferito e con la canotta bianca a brandelli, a un certo punto incarica l’utilissimo Powell, collocato all’esterno del Plaza, di riferire alla moglie Holly – gli riuscisse mai di trovarla – un paio di enormi verità: “Dille... che è la cosa più bella che è capitata a questo perfetto imbecille. Mi avrà sentito dire “ti amo” migliaia di volte, ma mai una volta “scusami”. Ma non è finita. Se lo spettatore non ha ancora capito che McClane è comunque diverso dagli altri duri, ecco che Gruber, stranamente incapace di capire ciò che sarebbe accaduto di lì a breve, si lancia in un’analisi sommaria che la Hollywood di McTiernan desidera appunto confutare: “Voi americani siete tutti uguali, ma stavolta John Wayne non cavalcherà verso il tramonto con Grace Kelly”. “Era Gary Cooper, coglione!”, gli fa McClane, sparandogli addosso con un’arma rambescamente nascosta dietro la schiena. No, gli americani non sono proprio tutti uguali, sembra suggerire il sorriso sornione, formato Moonlighting (serie che l’attore stava girando nello stesso periodo), di Willis.
Die hard ispirerà dozzine di imitazioni, oltre ad inaugurare una saga che ha conosciuto cinque episodi (l’ultimo nel 2013). Sebbene l’eroismo di McClane portasse al petto un badge in buona parte riconoscibile, Die hard non era il solito film. Più cupo dell’action medio dell’epoca (e di tanti altri degli ultimi tre decenni). Più angoscioso (il nemico sconosciuto crea angoscia, prima ancora che paura). Ricco di dettagli su cui sprecare una riflessione. I 35 anni dalla sua prima uscita coincidono però con una triste circostanza. La salute di Bruce Willis – 68 anni – è più che mai precaria. Diagnosi: demenza frontotemporale. La comunicazione, per Willis, è diventata un quotidiano rompicapo. E così, rivederlo al Nakatomi, mentre sfida il mondo e alla fine ce la fa, assume i contorni di una beffa amara, di cui avremmo fatto a meno.