Il 27 giugno del 2021, a Monteveglio, un paesino di qualche migliaio di anime nel Bolognese, Chiara Gualzetti, studentessa di 15 anni, viene trovata morta a due passi da casa, nel parco dell’abbazia. Per il suo omicidio i carabinieri arrestano un ragazzo, all’epoca sedicenne, che confessa il delitto. L’ha ammazzata a coltellate, calci e pugni. Qualche giorno fa Vincenzo, padre di Chiara, annuncia la morte della moglie: “Purtroppo oggi una cattiva notizia che mai avrei voluto dare. Anche Giusi è volata via. Dopo 15 mesi di lotta contro la malattia stanotte si è spenta. Sono sicuro che ora sia di nuovo con Chiara. Non ho parole. Continuo a dire che mi sembra di vivere un incubo”. Giusi Fortunato aveva 58 anni. A Vincenzo, prima di morire, ha sussurrato alcune limpide parole: “Non è giusto quello che abbiamo passato, questa vita non è per me. Mi voglio annullare”.
Le cupe cronache di questi tempi fanno paura. Soprattutto quando ci parlano di ragazzini che cadono per mano di coetanei. La cronaca ha sempre fatto orrore, ma tragedie come quella che ha colpito la famiglia Gualzetti fanno tremare, fanno smarrire il senno. Eppure si tira sempre avanti. Fermarsi, elaborare collettivamente ciò che sta accadendo, ci spaventa quasi quanto prendere atto che Chiara, un’anima innocente che scrutava le immensità della vita, non c’è più. Ora che anche la sua mamma, Giusi, non è più fra noi – annientata da una malattia che, per quanto scientificamente diagnosticata, era soprattutto l’eredità di un dolore insostenibile – qualcuno, a Vincenzo, rimasto a contemplare il suo incubo terreno, avrà già bisbigliato il classico “fatti forza”. E no, Vincenzo sia almeno libero di stringere i pugni e maledire questo suolo infame quante volte crede. Siamo noi, in casi come questi, a doverci sforzare di fare qualcosa di diverso dal solito. Per lui. Per fermarci e sederci accanto a lui.
Abbiamo una paura tremenda di fermarci. Viene a mancare un affetto a cui mai avresti voluto rinunciare e qualcuno subito ti consiglia di “distrarti”, di “continuare a marciare”, di “buttarti nel lavoro”, come se il caos, gli impegni, le luci, fossero il balsamo che zittisce lo strepitare del cuore, la diga che frena la violenza delle acque. Quando utilizziamo queste parole di conforto, dove scappiamo noi? Dove ci stiamo andando a nascondere? Da chi fuggiamo? È una società in fuga, la nostra. C’è chi fugge dalla guerra, certo, ma chi non conosce la guerra? Fuggiamo da un dispiacere, da un fallimento, da una responsabilità, da una relazione. Si fa i selfie, la nostra società, ma quando calano le tenebre evita lo specchio di casa, timorosa di ricevere indietro un’immagine sgradevole, che nessun filtro o cosmetico è in grado di alterare. Tuttavia non credo che siamo davvero così brutti. Lo dimostra, una volta tanto, un gruppo Facebook, “Giustizia per Chiara”. Quello attraverso cui Vincenzo ha annunciato la morte della moglie. Un gruppo frequentato da tante persone che – ne sono quasi certo – gli dedicheranno più di un semplice cuoricino online. Sì, credo che non siamo tutti così brutti. Però allora questo è il momento di essere anche coraggiosi. È il momento di guardare Vincenzo dritto negli occhi senza avere paura di non riuscire a sostenere il suo sguardo sconfitto. Dobbiamo avere il coraggio di guardare negli occhi una persona che non sa più di cosa ha bisogno perché tutto ciò che desiderava, tutto l’ossigeno che gli serviva per respirare, ridere e amare, glielo hanno tolto. Ora tocca anche all’indistinta società fare qualcosa. Indistinta, però composta da tanti individui che non possono permettersi di rimanere sordi al lamento di un uomo che in due anni ha perso tutto. Una società fatta di persone comuni, certo, ma anche di divulgatori, influencer in senso lato. Per non parlare degli uomini di Legge, chiamati in questi casi a garantire una giustizia vera, profonda. Esemplare.
Chi conosce personalmente Vincenzo, chi è vicino alla famiglia, o chi solamente vuole regalare un gesto di umanità a quest’uomo, si presenti all’appuntamento senza etichette, emblemi, titoli o ruoli. Si presenti, semplicemente, come essere umano. Basta fermarsi, ascoltare. E poi tornare a casa, abbracciare i propri affetti e scattare una di quelle foto che oggi sono tutto ciò che rimane a Vincenzo. Sperando che i figli adolescenti – le nostre Chiara – non abbiano paura di uno scatto insieme al padre e la madre. Non sfuggano agli abbracci. Noi genitori, invece? Beh, spesso inclini alla performance – per rispondere a chissà quali galattiche richieste –, ricordiamoci che una foto buffa, in cui tutti sorridiamo assieme e facciamo le smorfie, è una provvidenziale traccia di vita. Oggi come ieri, Vincenzo ammira a lungo quelle foto di famiglia che preme al petto socchiudendo gli occhi. Sono la prova che ha vissuto. Che ha amato ed è stato amato. Se ora troviamo il coraggio di fermarci, guardiamole insieme a lui. Senza fretta.