Il giornalismo è morto, si dice. Vero. Anche se qualche giornalista, nel senso pieno della parola, sopravvive - e per scaramanzia, tocchiamo ferro. È deceduto per svariati motivi che non è la sede di ricordare, tanto li conoscete già. Ma quando un giornale di primo livello nazionale, nella top five dei più venduti in Italia, che per tradizione si è impancato da sempre a voce ufficiale di coloro che ben pensano, distribuendo spesso e volentieri lezioncine e patenti di correttezza professionale e morale, in prima pagina sbatte il Presidente del Consiglio in carica ritratta in relax in una spiaggia pugliese, sottolineando il cocktail in mano e, soprattutto, il fatto di esserci planata con un volo di Stato, e invece si scopre che la foto è di tre anni fa, in tutt’altro posto, quando non girava con l’aereo blu, allora vuol dire che c’è qualche giornalista che, se non estinto, si fa dei bei pisolini. Siesta estiva? Eh no, visto che parliamo di Repubblica, il quotidiano più serio, e serioso, del bigoncio. Con schiere di redattori e battaglioni di collaboratori (o ex collaboratori, come Fabio Butera, grafico, che nel 2021 fece fare una santissima figura di palta alla testata diretta da Maurizio Molinari raccontando la sua storia di precario a Repubblica proprio su Repubblica, ma omettendone il nome e storpiando il proprio, in una delle lettere a cui Francesco Merlo rispose cascando in trappola). Tutti possono sbagliare, anche i migliori. Ma quando i migliori se lo dicono da soli, di essere i migliori, non è l’errore a essere in questione: è il contrappasso alla propria saccenza.
E in più, anche qualcos’altro di molto più importante. Va bene che l’informazione generalista, anche su quella riserva indiana di colti e semi-colti che è la carta stampata, deve attenersi al pop, all’immagine di richiamo, imitando il linguaggio visivo delle fotine sui social, e perciò è normale un’apertura in prima con Giorgia Meloni in costume, come nelle riviste di gossip. Però, anche qua: stiamo parlando di Repubblica. Un significato ulteriore c’è, fra le righe, dietro la sabbia e l’ombrellone. Ora, il giornale di proprietà degli Elkann è in una situazione sempre più difficile. Angusta, verrebbe da dire. Non solo per il tendenziale saggio di caduta dei profitti dovuta all’inesorabile erosione di lettori in edicola e alla difficoltà di business sull’online, perché tutto questo riguarda il sistema informativo per intero. Il motivo specifico è di posizionamento sul mercato. Con il fondatore Eugenio Scalfari e il successore Ezio Mauro, Repubblica aveva una sua identità forte, fortissima: era il giornale-partito, portavoce dell’opinione pubblica della sinistra diffusa, radicale nei toni ma moderata nei contenuti, il punto di riferimento per chi non era, o non era più, comunista, ma teneva alla (presunta) superiorità morale su quegli ipocritoni di democristiani di destra prima, e su quella massa di boccaloni o fascistoni che votavano Berlusconi, Bossi e Fini, poi. Elitario ma commerciale, in concorrenza perenne con il Corriere della Sera “terzista”, sotto Carlo De Benedetti rappresentava il foglio del sinistrismo à la page, che piace alla gente che piace, moralista e ayurvedico, impegnato ma per puntellare il buon ordine borghese, giammai per criticarlo sul serio. Oggi, cioè da anni, con Molinari, il quale veniva dalla moderatissima e austera Stampa di Torino, ha accelerato, affondato e completato l’opera: da finta sinistra è diventata semplicemente di destra. E si trova stretto fra il sempiterno Corriere da un lato, al centro, e il Fatto dall’altro, a sinistra.
Come? Cosa? La Repubblica un organo di destra? Ma siamo matti? I lettori storici che l’hanno abbandonata nell’ultima fase possono testimoniarlo: la linea politica si è talmente appiattita su inni in gloria del mercato, della Nato, del candido Occidente contrapposto ai vari imperi del Male di turno (oggi tocca alla Russia, quando fa comodo alla Cina o all’Iran), con una tale foga e fanatismo, che ormai rivaleggia in zelo non solo con il dirimpettaio Corriere, ma anche con la destra giornalistica. E gli editoriali e commenti di Mauro, di Merlo, di Michele Serra, di Ilvo Diamanti, di Tito Boeri eccetera eccetera eccetera? Il giochetto sta appunto qui: la batteria di pensose firme, fra le quali non ne spicca una di nuova e brillante manco col candeggio, ha la funzione di mantenere in piedi la maschera del samaritanesimo di sinistra, pietosamente piegato sul povero e l’indigente, sull’immigrato e sul lgbt (anzi, più sull’immigrato e sul lgbtq che sul povero e l’indigente), mentre il grosso dei contenuti, quelli che vengono più letti o meno ignorati, sia pur con identico tono supponente rifilano la pietanza del pensiero unico. E trasversale. Ovvero: si denuncia la precarietà, per esempio, ma comunque, ora e sempre viva la flessibilità. Fateci caso: sulla politica estera, che è più importante di quella interna, e sulla politica economico-sociale, che significa soldi, le critiche di Rep. alla Meloni non sono, o non tanto, sul cosa. Sono sul come e sul quanto. Della serie: il governo va attaccato perché può non essere abbastanza filo-americano, abbastanza credibile in Europa, abbastanza liberale, abbastanza attento ai diritti sociali. Solo su temi in sostanza innocui - per chi comanda, s’intende – come quelli bioetici o la difesa delle minoranze, solo lì si pesta duro. Perché non mettono in discussione i fondamentali: mercato, Nato ecc. E lasciano in piedi il teatro della Destra contro la Sinistra, le cui differenze sui problemi strutturali (che sono due: squilibrio nella ricchezza e autodeterminazione nazionale) sono esclusivamente di grado, di intensità. Non di orientamento. Ecco, a che cosa servono le fotografie qualunquiste in prima pagina con la premier che si sollazza al mare: per nascondere le vergogne. Le proprie. La cantonata, a questo punto, è un’insignificante inezia.