Anno nuovo serie nuove? Forse, ma non prima di aver recuperato i migliori titoli del 2023. Sulle maggiori piattaforme online, da Disney Plus a Netflix, alcuni film e alcune serie si sono fatti notare più di altri ed è giusto cominciare l’anno con qualcosa che valga la pena di guardare. Da Mickey Mouse ai thriller d’autore, passando per l’epopea adolescenziale, ecco dieci titoli che, se non lo avete già fatto, dovreste mettere in lista se non vi sono bastati i consigli che trovate nelle nostre guide definitive.
10) “The wonderful world of mickey mouse” (Disney Plus)
Le rivoluzioni si fanno in silenzio. E alla Disney deve esserci qualche rivoluzionario pazzo e silenzioso, perché questa serie di cartoni animati con protagonista il simbolo della multinazionale più politicamente corretta e paracula della storia è una meraviglia di scorrettezze, oltre che di storytelling che rasenta la perfezione. Prima che qualcuno se ne accorga e la cancelli, come da prassi da quelle parti, conviene guardarla: altro che per bambini, si tratta di una serie che non ha niente da invidiare a cartoni animati per adulti ben più celebrati, da Big Mouth a Close Enough.
9) “Mare of Easttown” (Hbo-NowTv)
Un omicidio, una cittadina dove si conoscono tutti, una detective donna con un trauma alle spalle. Con questi ingredienti, in Italia produrrebbero una di quelle porcate tipo quella fiction Mediaset con Ambra Angiolini di qualche anno fa, davanti alla quale anche il mal di stomaco rappresentava un’alternativa migliore rispetto alla visione della stessa. Negli Usa, complice Kate Winslet al posto della Angiolini, con quegli stessi ingredienti hanno fatto una miniserie imperdibile, a dimostrazione che per fare della buona tv seriale non servono premesse straordinariamente originali o indimenticabili, basta conoscere i fondamentali del mestiere. Non si tratta di arte, si tratta di tecnica, di organizzazione produttiva, di professionalità: proprio quello che manca da noi.
8) “The Diplomat” (Netflix)
Che poi, cosa deve fare una serie tv per funzionare? Fondamentalmente due cose. Uno, deve dare “insight” credibili su un mondo specifico, su una realtà particolare; due, deve dare costantemente al pubblico un motivo per guardare un nuovo episodio. The Diplomat fa esattamente questo: mostra il dietro le quinte della politica e della diplomazia americana in modo credibile (non proprio come The West Wing, ma siamo li), e costruisce la puntata con uno schema classico a quattro atti, l’ultimo dei quali brevissimo, che funzionano da set up per l’episodio successivo. A quel punto, basta aggiungere una protagonista come Keri Russel (quella di The Americans, per intenderci) per ottenere come risultato una serie che magari non resterà nella storia, ma è sicuramente una delle migliori nell’anno che ci conduce alle elezioni americane del 2024.
7) “The killer” (Netflix)
Il problema dei film di oggi è che sono tutti uguali, basandosi ognuno sul seguente canovaccio: un protagonista, meglio se donna o se espressione di una qualsiasi minoranza, ha un problema, diretta conseguenza del suo gender o della minoranza a cui appartiene; dopo varie peripezie, riuscirà a convincere l’ambiente esterno del suo valore, ribaltando le attese iniziali e finendo per primeggiare su quei pinoloni dei maschi bianchi eterosessuali – oppure a loro soccombendo, ma non prima di aver ottenuto una schiacciante vittoria morale. Non c’è nulla di intrinsecamente sbagliato in questo schema: se non fosse che al milionesimo film costruito in fotocopia uno non ne può davvero più. Ecco, l’ultimo film di David Fincher è bello perché il protagonista non ha: non ha un trauma, non è una vittima, non affronta nessun percorso di redenzione morale, non vuole insegnare al pubblico assolutamente nulla. È solo la storia di un assassino bastardo che si vuole vendicare e oggi fa lo stesso effetto di una boccata d’ossigeno dopo aver tenuto la testa sott’acqua per circa cinque anni, schiacciati dalla manona onnipresente della cultura woke.
6) “The patient” (Disney Plus)
La stessa cosa vale per le serie tv, dove troviamo il solito protagonista, meglio se donna o se espressione di una qualsiasi minoranza, che nella prima puntata entra in un ambiente a lui ostile, ma episodio dopo episodio saprà garantirsi la fiducia degli altri, dimostrando il proprio valore, migliorando la sua esistenza e di quelli a lui vicino (un esempio: The bear). Il merito di The Patient, come quello di The Killer, è di non c’entrare nulla con questo canovaccio: la storia del serial killer che sequestra il proprio psichiatra per cercare di guarire dalla compulsione dell’uccidere è una premessa tanto forte quanto nuova, fresca; e così l’ambientazione statica nella cantina dell’assassino, che fa assumere al tutto un tono teatrale e costringe la scrittura a lavorare sul sottotesto e gli attori a raffinare la propria performance fino a renderla essenziale. A proposito di attori: incredibile la metamorfosi di Steve Carell, che dopo averci regalato uno dei migliori personaggi comici di sempre – il Michael di The Office – dimostra di essere anche uno straordinario attore drammatico, supportato alla perfezione da un Domhnall Gleeson nel ruolo che, probabilmente, ne definirà la carriera.
4) “Euphoria” (Hbo-Now Tv)
Di Euphoria si è già scritto tantissimo e non potrei aggiungere nulla di nuovo, se non sottolineare un problema della serie, che le impedisce, a parer mio, di diventare davvero uno degli show più caratterizzanti dello Zeitgeist contemporaneo, confidandolo a show “di genere”, per quanto eccellente. Avere nel cast una come Sidney Sweeney nel ruolo di Cassie Howard e confinarla a un ruolo di supporto, per preferirgli Zendaya in quello di Rue Bennet è infatti un errore inaccettabile; non tanto perché la Sweeney è evidentemente la futura diva di questo decennio mentre l’altra una Miley Cyrus politicamente corretta: quanto perché il personaggio di Rue si rivela sempre più inconsistente stagione dopo stagione, banale e del tutto inadatto nel raccontare qualcosa di nuovo su cosa voglia dire essere dipendenti dalla droga a diciotto anni. Euphoria, di fatto, è interessante quando la sua protagonista principale è off-screen, e questo finisce per minarne la legacy: per quanto sceneggiatura e regia siano, al momento, quanto di meglio offra la tv seriale americana.
3) “Anatomia di una caduta”
Parafrasando Forrest Gump, si potrebbe dire che il festival di Cannes è come una scatola di cioccolatini: non si sa mai se a vincerlo è un capolavoro o una porcata. Nel 2022 era accaduto il secondo caso, quest’anno, fortunatamente, è accaduto l’inverso. Anatomy of a fall (Anatomia di una caduta) è meticoloso come un film di Fassbinder, costruito beat per beat come un thriller procedurale americano. Raramente avevo visto gli stilemi del cinema europeo fondersi alla perfezione nei rigidi canoni del cinema di genere americano: esserci riusciti è un traguardo enorme e infatti il film è in prima linea anche nelle candidature dei grandi premi americani, per ora Golden Globes, tra qualche settimana quasi sicuramente gli Academy Awards. Magari non vincerà, ma si tratta comunque di un risultato eccezionale e di uno dei migliori film degli ultimi anni, la cui domanda fondamentale – la ricerca della verità oggettiva – è molto simile a quella mossa da Todd Haynes in May December.
2) “The iron claw”
Sono profondamente convinto che il wrestling – il wrestling professionale, dunque non quello che si fa nei college americani, quello di Hulk Hogan e John Cena, per capirci – sia una delle migliori chiavi di lettura della contemporaneità. I wrestler interpretano un ruolo e combattono incontri predeterminati: proprio come la stragrande maggioranza delle persone, che sui social interpretano un ruolo e nella realtà sono destinati al fallimento da un sistema economico che ha smesso di funzionare. In questo contesto già drammaticamente fertile, si sviluppa la tragica storia dei fratelli Von Erich, un nome che in Italia dice poco anche a chi ricorda il wrestling delle telecronache di Dan Peterson, giacché solo uno dei fratelli combatté nell’unica federazione trasmessa in Italia – la Wwf – con il nome di Texas Tornando, racimolando solo un breve stint da campione intercontinentale. Una storia di wrestling che in realtà è una parabola di vita universale, dove la produzione A24 – la migliore casa di produzione indipendente americana – garantisce l’estrema qualità della componente autoriale. Litri di lacrime maschili saranno versate durante la visione di The Iron Claw: e probabilmente, a sugellare il tutto, arriverà anche un premio importante.
1) “Succession”
Potrei scrivere un saggio di quattrocento pagine su Succession, sulla sua importanza per la tv e soprattutto per la società di oggi, americana e non solo. Qui mi limitiamo a dire che ogni grande serie tv americana è, prima di tutto, una serie sugli Stati Uniti d’America e sulla violenza alla base della loro origine. È stato così per The Sopranos, Deadwood, Madmen, The Wire, Breaking Bad ed è così anche per Succession, l’unica vera serie tv di questi ultimi anni, quelli post golden-age, meritevole di aspirare a un ruolo tra i must watch di tutti i tempi. La spietatezza del mondo di Succession è la spietatezza del sistema capitalista inventato ed esportato ovunque dagli Stati Uniti d’America. Nei rapporti cinici all’inverosimile tra i membri della famiglia Roy, nella filosofia di vita del patriarca Logan Roy – un uomo che per denaro farebbe letteralmente qualsiasi cosa – non troviamo altro che il funzionamento profondo della società americana, una società figlia dell’oppressione perpetrata prima verso i nativi americani, poi verso i neri resi schiavi, poi verso i lavoratori europei chiamati a costruire le loro metropoli. Guardare Succession è il modo migliore per capire gli Stati Uniti, e di riflesso, il mondo in cui viviamo oggi. A livello più tecnico, un esercizio eccezionale di capacità attoriale unito a una sceneggiatura totalmente al servizio dei personaggi, al punto che a livello metodologico gli attori avevano facoltà di improvvisare sul set qualora sentissero che i dialoghi non rappresentassero appieno la motivazione profonda dei personaggi (un unicum nella catena di montaggio iper-specializzata che sono oggi le produzioni seriali americane). Vista la crisi finanziaria di Hbo, c’è da chiedersi se mai vedremo un’altra serie del genere: nel frattempo, è bene guardare e riguardare uno dei migliori drammi dal sapore shakespeariano mai prodotti prima.