“Neanche morto troverò la pace. Mi usavano da vivo, e troveranno il tempo di farlo quando sarò morto”: in questo, e non solo invero, Diego Armando Maradona ci aveva visto giusto. Vero, verissimo, perché post mortem diventa troppo facile portare a spasso a piacimento la memoria di chi non può più smentire. Accade quando è facile fuorviare chi parole, opere e omissioni di qualcuno, in questo caso Maradona, non le conosce per bene, ed è per questo, per ricostruire una volta per tutte e con una buona approssimazione l’aspetto politico e sociale di una figura che fuori dal campo ha avuto ancor maggior risonanza rispetto a quella (pur epocale) avuta con il pallone tra i piedi, che ha senso leggere Diegopolitik di Boris Sollazzo, uscito da poche settimane per Bibliotheka edizioni.
Ha senso leggerlo, Diegopolitik, perché ha avuto senso scriverlo (dopo Non avremo un altro D10S), per andare a ricostruire un pensiero politico globale e complesso, articolatosi in divenire, pur ancorato su solide idee di basi presenti in nuce e raffinate. Ha senso leggerlo soprattutto in una prospettiva internazionale che non può prescindere dell’America Latina, il vero fulcro di un libro che dà il meglio sotto quella lente, molto più rispetto ad altri fucus più italiani, già sviscerati altrove anche in maniera autorevole. Il pensiero politico generale di Diego, al contrario, no, al punto che c’è chi lo ha piegato sino a renderlo macchietta. Niente di più sbagliato: “L’ultimo grande leader del ‘900” è il sottotitolo del libro: iperbole voluta, dopo tutto iperbolico è stato Diego, uno che, in generale, non ha mai avuto paura del potere, fosse simboleggiato dagli Stati Uniti o dalla Fifa.
Se ne ricava il Diego pensiero maturo, quello esplicitato negli anni e reso con una certa organicità nelle trasmissioni di e con Diego (compresa una chiacchierata di otto ore con Chavez) a teleSUR, network nato e concepito per opporre all’informazione dei media occidentali “una contro informazione finalmente libera e indipendente della e sulla Patria Grande, il sogno di Bolivar”, scrive Sollazzo. Ne esce un Maradona “peronista, socialdemocratico, rivoluzionario, sovranista”, dove quest’ultimo termine, argomenta l’autore, va ripulito dall’utilizzo meloniano e orbaniano, essendo invece il “sovranismo maradoniano (...) la pretesa di difendersi dall’omologazione della globalizzazione e, al contempo, di ribadire la propria indipendenza”. Un pensiero populista, il suo, ma di un “un populismo non qualunquista e con molti padri nobili”, “un socialismo rivoluzionario e umanista, un’alternativa reale e realista a due sistemi, il capitalismo e il comunismo, che hanno dimostrato nei secoli tutti i loro limiti e il loro destino fallimentare”. Insomma una terza via del neobolivarismo, un respiro che Maradona “trova nel castrismo e ancora di più nello chavismo, nell’idea di Patria Grande che scopre finalmente le sue contraddizioni, e le risolve”.
Il rischio, che Sollazzo corre e nel quale incappa consapevolmente, almeno quando ne parla con l’affetto sincero e già mostrato in altri libri, è quello di imporlo come santino, perché Maradona “morendo, peraltro povero e maltrattato, ha permesso a tutti noi di giudicarlo più lucidamente. E allo stesso tempo ci fa correre il rischio di santificarlo e quando accade, spesso, si appiattisce e si ridimensiona il messaggio politico” di chi – Diego come Pasolini, in un rapido ma centrato parallelo – ha un’eredità “tutta politica, nonostante alcuni errori-orrori” che succedono “a chi non rinuncia, mai, a prendere posizione”. Per Diego, scrive, “l’importante era fare, e dire, la cosa giusta. Sempre”, e qui l’amore incondizionato cozza con gli errori politici che pure Sollazzo sottolinea nelle pagine precedenti, come le sue “imprudenti alleanze per contrasto, tra tutte quella moderata per Vladimir Putin e quella più sfacciata – il suo errore di valutazione più grande – per Mahmud Ahmadinejad”, nel solco secondo cui i nemici dei miei nemici sono miei amici, per la sua invincibile avversione per gli Stati Uniti (quelli di Kissinger e dei Bush), nella “visione ancora acerba del primo Maradona politico”. Una visione analizzata con una certa lucidità nella sua evoluzione, per un pensiero nel quale “l’identità politica del campione argentino è il risultato della storia del suo paese e dell’intero continente”.