C’era una volta “60 Hz”, il massiccio “producer album” che collocò il nome di DJ Shocca, da Treviso, al centro della mappa dei beatmaker italiani. Un disco che, a differenza di tanti altri, ha visto crescere la sua reputazione negli anni. Ogni ristampa attesa con salivante impazienza; ogni menzione di “60 Hz” accolta con il cenno d’intesa destinato agli intenditori. Perché tutto ‘sto casino? Per qualche “fat beat” e qualche verso memorabile? Ehm, no, non facciamola troppo semplice solo perché, all’occorrenza, sappiamo armarci di (eccessivo) cinismo. “60 Hz” è un disco epocale perché vent’anni fa la scena hip hop aveva bisogno anche di una simile dichiarazione artistica. Quindi conta nulla se, a posteriori, quel sound possa risultare “risaputo”. Al tempo c’era bisogno di quello, di qualcosa che contribuisse a scolpire nella pietra i caratteri di un’estetica che ha svezzato una generazione di rapper e produttori.
Vent’anni e il mondo è cambiato, quell’hip hop celebrato e annunciato da “60 Hz” ha esaurito la sua missione evangelizzatrice. È il momento dei promemoria. E “Sacrosanto”, sia chiaro, è un maiuscolo promemoria. Imparentato con la nostalgia, ma non schiavo di essa, prova a riproporre – rinunciando ovviamente a ogni effetto sorpresa – un modo – IL modo? – di rendere onore al verbo HH. Preceduto da una discreta trepidazione fra tutti coloro che in un beat ben assestato ci vedono dentro un orizzonte in cui rifugiarsi, “Sacrosanto” offre una parata di rapper tenuti insieme dalla produzione fiera, old school e spavaldamente internazionale di un Shocca che suona ciò che ti aspetti di ascoltare fissando la copertina dell’album. L’immagine è quella di una chiesa fatta di diffusori. Hip hop come fede, hip hop come musica torcibudella fondata sull’espressività di un basso, di un campione, di uno scratch.
“Sacrosanto” non mente perché mentire in chiesa – anche se si tratta della chiesa laica dell’hip hop – è peccato. E Shocca, che è ancora “real” in un’epoca in cui esserlo non conta più un cazzo, lo sa. Fra i rapper tornano quindi Nesli, MistaMan, MadBuddy, Danno e Inoki. Shocca, proprio con quest’ultimo, lo scorso anno ha pubblicato “4 mani”. I due, album in coppia a parte, sono fatti l’uno per l’altro: il rapper bolognese disse agli Arcade Boyz che “se non usi lo scratch in un disco hip hop sei uno stronzo”. La pensa così anche Shocca, spacciatore di basi precise come cronografi svizzeri, ogni strumentale perfetta per un dj-set senza filtri, ogni sample estratto da quell’oceano di ispirazioni costituito dal grande catalogo black.
Con questo progetto pubblicato per Unlimited Struggle, il produttore veneto ha voluto ribadire il suo ruolo, il ruolo della vecchia scuola, qui rappresentata sia da chi c’era due decadi fa, sia da chi è cresciuto con quelli che c’erano due decadi fa (Emis Killa, Gemitaiz, Nitro). Frank Siciliano, in “Senza di te”, si conferma una stilosissima voce soul capace di arrampicarsi sulle melodie con la destrezza di un talento del parkour; Kaos e Emis Killa (“90”) rischiano di apparire mal assortiti ma si incastrano bene; “Sembrava impossibile”, dove c’è lo zampino dei Sottotono, è un bel joint tinteggiato di R&B; “Full effect” (migliore beat dell’album insieme a quello di “Senza di te”?) è orgoglio non diluito, un pezzo in cui Danno rivendica le ambizioni alte dell’hip hop più puro; “Il resto è storia” pare un estratto dalla più sontuosa delle mixtape. Chiude il block-party, troppo presto, a soli 24 minuti dallo scratch che ha dato inizio alle danze, “No survivor/La lezione”, ospite MadBuddy. Strisciante e polverosa per un finale cupo.
Così si fa, vuole dirci Shocca. Secco, espressivo. Innamorato di una bassline perché in una bassline azzeccata scorreva e scorre l’identità di una cultura. Farà proseliti, “Sacrosanto”? Probabilmente no. Può ricordarci che qualcosa è andato perso nella spirale della rivoluzione digitale (“…Mo che non dura manco più mezza settimana, e non sei tu che stai brindando a Copacabana…”, rappa Danno)? Sì. “L’hip hop è qui per restare”, si diceva anni fa, fra i già convertiti. “Sacrosanto” ci rimanda a quei giorni in cui una frase simile era più una forte speranza che una granitica convinzione. E in assenza di certezze assolute la musica, ogni musica, suona più urgente.