È morto a Milano, a 80 anni da poco compiuti, dopo una lunga malattia. Pare fin troppo semplice affermarlo, ma è morto un “italiano vero”. E se oggi una frase simile profuma di un orgoglio nazionale in buona parte perso nell’evolversi dei tempi e dei costumi, quando Toto Cutugno, da Fosdinovo (Massa-Carrara), nel 1983 se ne uscì fuori, al Festival di Sanremo, con “L’italiano”, la gente – il popolo, si potrebbe azzardare, senza accenti classisti – rispose alla grande, promuovendolo a cantante preferito di chi attraverso la musica né lottava né si impegnava. Toto cantava la sua gente, cantava sé stesso rappresentando milioni di persone che, al di là di quell’emancipazione che esigeva impegno e ideali, rivedevano nelle sue canzoni la loro quotidianità di italiani semplici e mal rappresentati (o non rappresentati affatto) dal cantautorato più serio. “Buongiorno Italia con i tuoi artisti/Con troppa America sui manifesti/Con le canzoni, con amore/Con il cuore/Con più donne e sempre meno suore”. “L’italiano” è stato un manifesto. E infatti è diventato la colonna sonora di “Al bar dello sport”, con Lino Banfi e Jerry Calà, il primo, soprattutto, considerato ancora oggi “un italiano vero” – qualsiasi cosa voglia dire – da quella generazione non abituata ai riflettori. Quella generazione che negli ultimi 50 anni circa ha cercato il proprio riflesso in canzoni e film dal tono leggero. Più – arridaje, concedetecelo – popolare.
La commemorazione di Toto Cutugno passa però, inevitabilmente, da una carriera che ha fatto rima per ben 15 volte con il Festival di Sanremo, soprattutto quando la rassegna – ricordiamo gli anni di Pippo Baudo – si poneva come una sorta di alternativa alla contemporaneità raccontata da radio commerciali dai gusti più giovani e più internazionali. Sembra incredibile, ma dopo gli anni in cui il Festival “aveva fatto” la canzone italiana, disegnandone i tratti somatici, la rassegna era diventata un contenitore protetto per figure che interpretavano una canzone dalla vena nazionalpopolare, ma anche classica, che si stava smarrendo. Così Toto Cutugno, che vinse il Festival con “Solo noi” nel 1980, è ancora oggi nella top 5 dei cantanti che hanno partecipato più volte al Festival insieme ad Al Bano, Peppino di Capri, Milva e Anna Oxa. “Solo noi”, ed ecco il filone dell’amore, delle relazioni, degli affetti. Un filone che non abbandonerà mai. Spostiamoci al 1989: il pop italiano punta all’Europa, ma con Toto continua, orgogliosamente, a guardare anche dentro di sé e alle proprie spalle. Così, nata a quattro mani con Stefano Borgia (fatto che diede vita a più di una controversia perché Toto difficilmente citava Borgia quando cantava il pezzo), “Le mamme” arriva seconda al Festival dietro la coppia Oxa-Leali. “Le mamme sognano/Le mamme invecchiano, le mamme si amano/Ma ti amano di più”. Un altro manifesto semplice, con quella voce alla Celentano che per Cutugno è sempre stata una benedizione e una maledizione.
In una bella intervista a Marco Marra per “La mia passione”, programma di Rai3, Cutugno racconta sé stesso senza lacrime buone per la Venier o la D’Urso. Si racconta in modo – crediamo – sincero. “Ho solo momenti di grandi momenti di gioia e tenerezza per L’italiano. Mi trovavo in Canada per un concerto, a Toronto. Alla fine, davanti a tremila persone, si sono accese le luci e ho visto tremila facce da italiani. È in quel momento che ho deciso di scrivere quella canzone”. Il Canada, “l’estero”. Quando essere italiani significava essere anche emigranti, perdere identità in qualche stamberga bavarese o in Belgio, dove Carlo Verdone ambienta una parte di “Sono pazzo per Iris Blond”, film in cui si raccontano anche le traversie di quei “pop singer” italiani che andavano a sbancare lontano da casa, parlando ad atre persone che avevano abbandonato casa, patria, legami. All’interno di quell’intervista spunta anche un vecchio filmato in bianco e nero, però. Si tratta degli Albatros, che eseguono “Volo AZ 504”. Canta Toto Cutugno, agli esordi, un Cutugno che così, gli italiani, non lo avrebbero ascoltato più. Ci sono già tracce evidenti di quel modo di intendere la canzone “per la gente”, ma gli Albatros, durati quattro anni scarsi, raccontano una (piccola) parte intrigante, perfino oscura, di una biografia artistica più che mai pop e plateale. Pezzi rarefatti, iniettati di funk “light”, con qualche altrettanto leggero accenno fusion. Da riscoprire. Forse ora che Toto Cutugno non c’è più.