Ma vuoi vedere che questa serie da voto “8” pieno su Imdb in Italia se la vedono in pochi perché nella prima stagione c’è un giornalista prima un po’ famoso, adesso perculato, prima di destra, ora di ultradestra, che somiglia troppo a un mix di Francesco Borgonovo, Gianluigi Paragone, Andrea Scanzi, Giuseppe Cruciani, Mario Giordano e Roberto Saviano (il personaggio, ovviamente, non le sue azioni)? Ma vuoi vedere che “Slow Horses”, Apple TV+, tratta dai libri di Mick Herron, in Italia è un fenomeno di nicchia e non un successo popolare, perché i protagonisti sono uomini fallibilissimi, un po’ pasticcioni, scorreggioni anche, che riescono a essere eroi tra le vere difficoltà della vita, compresa la sbadataggine, l’alcolismo, la spazzatura in ufficio, e dove invece l’MI5 quello “vero” (i nostri antieroi lavorano nel “Pantano”, un ufficio di incasinati messi lì a scontare - cosa? - la loro umanità) gironzola impeccabile in uffici così Ikea e minimalisti da rilasciare odore di formalina e obitorio del pensiero? Ma vuoi vedere che in quest’Italia übermensch, dove tutti sanno tutto, dove ognuno è più intelligente di un’altro, dove si vuole apparire impeccabili (e poi si casca su una umanissima grattata di palle - meraviglie del superominismo), in quest’Italia influencer e upgradante, dà fastidio Gary Oldman che combatte il male coi calzini bucati appoggiati sul tavolino accanto alla cena?
Ci sono Gary Oldman, Jack Lowden, Kristin Scott Thomas (la donna più bella del mondo secondo il nostro amato “Jezza”) tra i “ronzini” confinati nella “Slough House” - in ambiente decadente-analogico (solo un ragazzino hacker che chiama i colleghi “guardie”... ma forse era meglio tradurre “sbirri” o “piedipiatti”) - e gli uffici dell’MI5 “presidenziale” - in linea con tutti gli uffici degli spioni delle altre serie - per decretare il successo di una serie che ha un “mondo” e una “lingua” (e un paio di rutti). C’è anche Jonathan Pryce, per dire. La sigla, certo, fosse stata una serie americana, sarebbe andata di diritto a Tom Waits. Ma siamo in Inghilterra, patria di tutte le vere spy story, per cui, chi chiamare di sporco, brutto, cattivo e affascinatissimo? Mick Jagger ovviamente, che scrive la canzone di apertura, “Strange Game” e il tema portante della colonna sonora. Siamo già alla terza stagione. E ancora ne parla il passaparola, la si consiglia agli amici, a chi non trova da vedere qualcosa che abbia stile e carattere. Tra i fan dicono che è la piattaforma a penalizzarla. Fosse stata su Netflix ne starebbero parlando tutti. Non credo.
Ma voi ve li immaginate i complottisti nostrani, quelli dei “poteri forti”, quelli convinti che vi siano esseri ultrapotenti, capaci di manipolare le masse, rendersi conto che a tirare le fila del mondo sono persone che si dimenticano i dossier confidenziali sui treni (no, non lo fanno apposta, se lo dimenticano, come chiunque si dimentica qualosa andando a fare la spesa), che sgattaiolano via dagli amici per bere una birra solitaria in un bar in quelle sere in cui non hai voglia di vedere nessuno, che organizza riffe. Basta la prima puntata della prima serie per capire che siamo di fronte a un capolavoro. Un gruppo di nazionalisti suprematisti decide di comportarsi come i talebani, così prendono in ostaggio un ragazzo di colore e progettano di decapitarlo rilasciando il video su internet. Il ragazzo è un comedian, il suo sogno è lavorare nel mondo della stand-up, fa battute scorrette sulle religioni, su tutte le religioni, anche contro la sua. Ed è lui che rapiscono. Perché in questo mondo tutto fa brodo, tranne una risata. Bisogna essere seri e incazzati e spinti dall’odio e divisivi per essere qualcuno (o qualcosa): la satira e la risata sono il nemico dei “cattivi”. E “Slow Horse” è la serie nemica di ogni stupido.