Se hai Ibra in squadra, non lo metti in porta. E se hai Glenn Close nel tuo cast, un ruolo secondario non glielo puoi dare. Lei è protagonista in tutto quello che fa, anche quando il ruolo principale dovrebbe andare a un rotondetto Gabriel Basso, il JD Vance che questa "Elegia americana" l'ha scritta, come autobiografia pubblicata nel 2016, e l'ha vissuta, molto tempo prima. Ma Glenn Close, zoppicante fumatrice incallita senza un soldo, lascia poco spazio a chi tenta di essere protagonista almeno quanto lei.
Matriarca di una famiglia allo sbando, nel Sud dell'Ohio, l'eterna Crudelia De Mon - che Ron Howard veste con una pelliccia di degrado e miseria - prende le redini di tutto: del nipote destinato a un futuro degradante, della madre tossica che rischia l'autodistruzione ogni cinque minuti, e del film stesso, che senza il suo zoppicare perderebbe molto più di una gamba.
Grande onore anche al regista, un Ron Howard dal buon spessore, che oltre a scegliere con attenzione un cast da red carpet importanti riesce a gestire le difficili dinamiche della trasposizione cinematografica di una biografia dal facile cliché.
Per cadere nella trappola del "sogno americano" ci sarebbe tutto il necessario: una famiglia degradata, una madre tossicodipendente, una storia familiare fatta di violenze, un ragazzo dotato che viene salvato - proprio sul baratro della perdizione - e una storia di redenzione che fa i conti con altri grandi macrotemi americani (l'istruzione super costosa e super elitaria a Yale e l'esercito come via di fuga).
Hillbilly Elegy - trasformato in un più armonioso e a noi comprensibile Elegia americana - ha però la purezza della storia vissute. E le pagine scritte dal vero JD Vance non perdono il trasporto di questa purezza, non cadono nella banalità di un racconto sulla redenzione personale e familiare.
E per riuscire nella difficile impresa, Ron Howard si è giocato la carta della cattiveria. La mancanza di umanità di questa famiglia che continua a ripetere - come un mantra religioso o, meglio, come una bestemmia sputata - l'importanza di rimanere uniti, è il punto di svolta della storia.
La consapevolezza del proprio egoismo è quello che salva JD dalla fine di tutti gli altri, e la coronazione del sogno americano risiede in quegli ideali così tipicamente statunitensi da sembrare usciti da un telefilm di inizio anni 2000. L'esercito per trovare una dimensione, per forgiare il carattere, e poi Yale - le élite studentesche - per un futuro degno di questo nome.
Non ha brio creativo, il lieto fine di questo ragazzo che tenta il ricongiungimento familiare dopo aver trovato il proprio posto nel mondo, ma è vero. Non solo perché - effettivamente - racconta una storia accaduta nella realtà, ma perché dentro ai cliché americani c'è il senso profondo di questo paese complicato.
A tratti ricorda Ohio - il romanzo di Stephen Markley - con personaggi grotteschi ma noiosamente normali, in un mix di ribrezzo e indifferenza. Capofila del degrado è una sensazionale Amy Adams, che sguazza nella tossicodipendenza, e non prova mai a uscirne con la forza di chi nella vita ha carattere e determinazione. Ed è perfetta, madre Medea e figlia Medusa, nel suo tossico egoismo, per indicare l'unica strada della salvezza: la fuga.
E in questo collage di "cose americane" Ron Howard forse è sarto, più che regista, mentre Glenn Close e Amy Adams indossano alla perfezione i vestiti fatti di stracci che lui ha cucito per loro.
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