Un anno fa ero a pranzo in una trattoria vicino a casa col mio amico Ray Banhoff. Voleva scrivere un pezzo su di me, reduce dall’esperienza estrema di conduzione e scrittura di un programma devastante su viaggi in posti diversamente belli d’Italia, Turisti per DMAX. Notò subito che durante il pranzo spesso guardavo il mio feed di Instagram (un’abitudine abbastanza cafona che spero nel frattempo di aver perso). Nel pezzo, scrisse:
“Per molti il suo utilizzo dello strumento social pare ciarliero, controverso, ma per lui le stories sono un prolungamento della fantasia. Una forma di anti stress nelle lunghe giornate passate a scrivere i copioni e a fare il padre. Mannucci è un caso abbastanza raro di uomo over 40 che usa i social come un ragazzino. È iper compulsivo, a volte si aliena durante una conversazione per controllare il telefono («Una cosa odiosa in cui sto molto migliorando») ma gli viene facilissimo comunicare direttamente coi suoi utenti”.
In effetti Banhoff aveva centrato il punto. Per me, una persona da sempre affascinata dalla serialità e dalla rubricazione dei contenuti, i social (parlo al plurale anche se uso quasi solo Instagram), sono sempre stati un palinsesto libero da riempire con le mie ossessioni: la chitarra, la corsa, il cibo, la musica, le monacali stanze degli alberghi a mezza stella cadente in cui ho soggiornato durante le mie trasferte di lavoro… Siamo in un periodo storico in cui la presenza sui social sembra irrinunciabile per tutti, anche se in pochi la vivono serenamente. Quando, sui mezzi, mentre aspettiamo un amico, in un bar, sul divano, scorriamo il nostro feed col ditino, quasi sempre a un certo punto ci facciamo la stessa domanda: ha senso che io perda tempo a guardare degli ippopotami giapponesi che mangiano delle angurie in un unico boccone o una pressa idraulica che schiaccia un antistress a forma di Mio Mini Pony quando potrei fare un giro al parco o leggere un libro? Io ammetto di essermi sentito pochissimo in colpa per il mio tempo trascorso su Instagram, anche se rispetto a un anno fa ci passo molto meno tempo: mia figlia è cresciuta e ora interagiamo molto più attivamente, il mio lavoro si è intensificato e ho faticosamente ma consistentemente ricominciato a leggere. Io però ho 45 anni e nel server che ho in testa ho miliardi di ricordi di anni antecedenti all’evento dei social network. Per me forse è più facile pensare a una vita senza social. Sono aiutato anche dal fatto che mia moglie è l’unica 35enne che conosco a non aver mai usato alcuna piattaforma in vita sua e non mi sembra che la sua sia una vita particolarmente miserevole (se lo è dipende in larga parte dal fatto che ha sposato me).
Però la situazione è molto più grave di ciò che sembra, almeno secondo The Social Dilemma, il documentario da qualche giorno approdato su Netflix che ha fatto un gran parlare di se. Diretto da Jeff Orlowsky, il film alterna le testimonianze di uomini e donne che hanno ricoperto incarichi di primo piano nelle aziende della Silicon Valley a momenti fiction nei quali lo spettatore vede gli effetti dei social su una famiglia americana dove i genitori fanno fatica a dire ai figli di lasciare lo smartphone sul tavolo quando si mangia. Gli intervistati sono responsabili di varie invenzioni che hanno rivoluzionato il nostro modo di interagire su scala globale, come il tasto like di Facebook o la chat di Gmail e ciò che dicono lascia poco spazio all’interpretazione: la polarizzazione della società, l’aumento del bullismo e della violenza (anche in gruppi terroristici organizzati), la disinformazione e il proliferare di fake news, l’indebolimento della democrazia e l’aumento di problemi mentali nelle fasce di popolazione più giovani hanno come unici responsabili i social network, le piattaforme che proprio loro hanno contribuito a creare. Oggi, ognuno seguendo il proprio percorso, hanno tagliato i ponti con il mondo di cui facevano parte, per motivi etici e sostengono di aver creduto di lavorare per il bene comune anche se ora ammettono di essere stati oltremodo ingenui a proposito del rovescio della medaglia. Lo scenario futuro prefigurato da questi guru del tech pentiti è oltremodo inquietante. Alcuni passaggi sono efficaci, come quando Jaron Lanier, uno dei padri fondatori del concetto di Realtà Vituale che sembra una specie di hippie postatomico, dice che quello che i vari Facebook, Twitter e Instagram (sono troppo vecchio per nominare Tik Tok) vendono non sono i nostri dati (anzi, quello per loro è oro), quanto piuttosto “il graduale, sottile e impercettibile cambiamento che generano nel comportamento e nella percezione degli utenti”. Lentamente ma inesorabilmente i social ci traghettano verso bisogni/prodotti che non sapevamo, non immaginavamo di avere e che casualmente sono offerti dalle aziende che finanziano questi colossi.
È la nostra mutata personalità il vero prodotto in ballo ed è il motivo per cui sono pericolosi. In altri momenti del film però l’impressione è che la tesi dei social come unico male del mondo appaia troppo semplicistica e riduttiva: certo, bisogna semplificare il messaggio perché venga metabolizzato bene da più persone possibili (in questo gli americani sono maestri), ma come ha giustamente fatto notare Ani Robertson su The Verge, l’idea che l’algoritmo che suggerisce contenuti personalizzati sia alla base dei nostri guai taglia fuori tanti altri responsabili importanti e colpevoli al pari dei social network: ad esempio, la diffusione di fake news prolifera anche grazie a WatsApp, un sistema di messaggi che non funziona come Facebook e non ha nessuna interferenza algoritmica; Robertson spiega che molti responsabili di stragi di estrema destra (Chris Harper Mercer in Oregon e Anders Breivik in Norvegia ad esempio) sono incubati in piccoli forum e non sul colosso di Zuckemberg o Youtube. Il vero responsabile, conclude, è la capacità (ritenuta in generale positiva) di Internet di connettere persone che la pensano nello stesso modo. Che i social ci manipolino e cambiano le nostre percezioni non è del resto una novità e sebbene The Social Dilemma sia una visione indubbiamente interessante, ci sono tante domande che restano sospese: perché, per esempio, tutti questi geni del tech hanno deciso di parlare solo adesso dei devastati effetti delle loro creazione?
Qual è la soluzione per allentare la presa che i social hanno sulle nostre deboli e provate menti, per debellare la piaga dei terrapiattisti, per impedire che in ogni mia pagina compaiano banner che pubblicizzano trapianti di capelli a Istanbul? Il documentario non ipotizza soluzioni soddisfacenti. A parte questo, ci sono un paio di cose che non mi sono davvero piaciute: la prima sono le parti fiction che fanno rimpiangere le ricostruzioni di Linea Gialla, dove il social generico che plasma la mente dei protagonisti è rappresentato da una stanza dei bottoni dove tre cervelloni (interpretati tutti dallo stesso attore che sembra un comico di Zelig degli anni 90) spiano i comportamenti dei ragazzi per infilarci in mezzo delle pubblicità. La seconda è che il docu mi ha fatto venire in mente The Circle, uno dei film più brutti della storia del cinema, dove un’insopportabile Emma Watson è un’impiegata che smaschera la truffa dello stevejobbesco fondatore del social più potente del mondo, il povero Tom Hanks che ha probabilmente accettato la parte per pagarsi le spese di ristrutturazione della villa a Cabo: se qualcuno inventerà una macchina del tempo, la prima volta che la userò sarà per tornare indietro a prima di quel film e sceglierne un altro.