Nella superba narrazione degli “honesti”, la poltrona è un oggetto criminale, se non criminogeno. Viene lì evocata immobile, feticcio e monito negativo assoluto, molto simile al monolite di “2001 Odissea nello spazio”, le scimmie della corruzione intorno. La “poltrona”, accompagna dalle virgolette della vergogna, sottratta in questo caso all’ordinario racconto pubblicitario e commerciale, dove altri complementi d’arredo appaiono accompagnati dai non meno innocenti sofà, diventa ora corpo del reato. Ogni suo naturale necessità domestica e ricreativa non è infatti contemplata nel lessico populista e post-giacobino dei grillini che reputano, insieme al loro elettorato, d’essere testimoni di un ignobile immondo “tradimento” da parte dell’ex “cittadino” Luigi Di Maio, cui avevano inizialmente creduto, il cuore in mano. Responsabile, parliamo sempre di Luigi, d’avere barattato meschinamente un grande orizzonte colmo di stelle, appunto, per una miserrima “poltrona”; Di Maio stigmatizzato infine come l’ennesimo democristiano. Pier Paolo Pasolini, più kafkianamente, pensando al luogo residenziale del potere trova l’immagine del “Palazzo”; grillini e loro succedanei altrettanto populisti, con linguaggio da scommettitori di corsa tris sull’uscio del Punto Snai, hanno scelto invece la metafora ergonomica e insieme eticamente abissale della “poltrona”.
I fascisti, giusto per fare un po’ di storia, già proclamavano: “Noi non amiamo la vita comoda!”. Dunque, implicitamente, ritenevano a loro volta la “poltrona” un oggetto nemico d'ogni purezza politica, un luogo di sonnolenta corruzione. Un riverbero di quel sentire squadristico, a suo modo perfino futurista, persiste in coloro che adesso accusano Luigi Di Maio, e chi ne condivide le scelte ulteriori governiste, di avere ceduto su ogni principio fondante il MoVimento, colpa degli agi rassicuranti ottenuti, gli stessi che trovano ora e sempre nella già menzionata “poltrona” il loro empio approdo iconico.
L’Italia, sappiamo, grazie ai suoi irreprensibili padri fondatori, deve la propria gloria a “un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigratori”. Tuttavia, osservandone meglio il paesaggio imprenditoriale, anche di geniali mobilieri. La cittadina di Cantù, restando nell’orizzonte produttivo degli opifici di mobilia, pare abbia fornito a Vladimir Putin il raggelante tavolo ovale laccato bianco destinato a incutere timore reverenziale e rispettosa distanza nell’ospite; in quel caso non si parla però di poltrone, semmai di “trono”, cose che i parvenu del M5s a dire il vero non hanno mai contemplato come approdo simbolico, e ciò sia detto al di là di ogni doverosa riflessione sul kitsch ampiamente documentato dalla comunicazione di un Beppe Grillo.
Restando in poltrona, peccato che in questo nostro caso il discorso escluda preventivamente la sublime e leonardesca dimensione del design, materia pratica nella quale, sempre noi estrosi italiani, sfavilliamo quasi dal tempo dell’invenzione della ruota: Ettore Sottsass, Achille Castiglioni, Gio Ponti, Gae Aulenti, Bruno Munari, Italo Rota, Super Studio, per non dire di Alessandro Mendini con la sua “Poltrona Proust”, esempio apicale di gusto post-modern, in questo caso, ahimè, si ritrovano oscurati dall’ordinaria mobilia del Transatlantico parlamentare. Quanto alla "Chaise longue" di Le Corbusier neanche a parlarne.
La “poltrona” negativamente evocata dal populista manicheo nostalgico dei meetup non va comunque immaginata intenzionalmente nella sua “meschina” sostanza ministeriale, ossia scranno di Montecitorio o di Palazzo Chigi o di un possibile e non meno soddisfacente assessorato ai lavori pubblici o perfino all’annosa, semmai come approdo criminale, postazione di rapina di denaro pubblico. E qui un’altra suggestione, stavolta pittorica, giunge ai nostri occhi: il “fascistissimo” pittore Mario Sironi, a regime mussoliniano ormai deposto, raffigurava i parlamentari della pervenuta “democrazia” torvi e goffi, asserragliati nel loculo abusivo proprio di una poltrona.
Tornando al nodo iniziale, la contesa morale mostra e contrappone la “poltrona” all’umana e generosa figura intera in piedi incarnata dal disinteressato “cittadino” militante, eroico davanti al suo “gazebo”, volantinaggio contro nota spese, tessera dei mezzi pubblici vs Carta "Freccia Alata". Volendo, perché no, l’honesto va immaginato in costume di moschettiere, come quel D’Artagnan che accadde di vedere anni addietro a un grande raduno pentastellato al Circo Massimo di Roma, quando le “poltrone” erano ancora destinate al tempo limitato dei "due mandati", e le virgolette della vergogna non avevano lambito i suoi stessi dirigenti.
Così pronunciò Alessandro Di Battista, indomabile, rimasto in piedi come l'Ercolino di una antica pubblicità: “Ignobile tradimento di Di Maio per la poltrona, adesso sarà a tutti chiaro perché sono andato via”. Aggiunse poi, sempre su Twitter, un altro non meno indignato utente di "Rousseau": “Se si va al voto si precipita il paese nel baratro, dice Luigi ‘poltrona’ Di Maio”. E ancora l’ennesimo: “Qui siamo oltre l'attaccamento alla poltrona, qui siamo all'essere parte integrante dell'arredamento...”. A seguire una sentenza citazionistica terminale: “La poltrona logora chi non ce l'avrebbesse” (sic), commento accompagnato da un meme dove Di Maio ha il volto curiale di Andreotti. Infine, al fotofinish: “Il gruppo parlamentare di Di Maio si chiamerà Insieme per il futuro. Anche se era più adatto Insieme per la poltrona”.
Oh, le promesse iniziali mai mantenute dai “voltagabbana”, termine che l’ex fascista Davide Lajolo utilizzò in un libro per raccontare il suo viaggio politico dalla camicia nera al Partito comunista di Togliatti… Verginità perduta, barattata per una “poltrona”, segno, sinonimo di abominio; non la “Frau”, semmai il brand del cedimento d’ogni freno morale, immagine totemica di un abisso intorno ai quale instancabili, in piedi, resistono, appunto come i primati del film di Kubrick, i "traditori".