«Non c’è ambiente da salvare se non si salva prima l’uomo». Ci tiene a ribadirlo più volte Emanuele Cerullo nel corso dell’intervista, perché è convinto che qualsiasi cambiamento debba avvenire senza dimenticare le persone. Se teniamo conto che lo abbiamo contattato per parlare della sua terra, che è Scampia, un quartiere tristemente famoso per la criminalità e lo spaccio di droga, allora è chiaro che quel pensiero apparentemente semplice assume tutto un altro valore. Torniamo a parlare della periferia di Napoli, perché è stata annunciata nei giorni scorsi la quinta e attesissima stagione di Gomorra su Sky che sarà visibile da novembre 2021. Una serie evento che, dopo il libro di Roberto Saviano a cui è ispirata (e il film diretto da Matteo Garrone) ha acceso i riflettori su una realtà che da quel momento, non solo attraverso gli arresti e le inchieste delle forze dell’ordine, sta provando a cambiare cercando un riscatto dall’unica strada che fino a poco tempo fa sembrava quella proposta dalla camorra. Un processo, che dovrebbe essere favorito anche e soprattutto dalla cultura e il suo è uno degli esempi più riusciti. Nel 2016, infatti, il libro di poesie “Il ventre di Scampia” divenne un caso letterario proprio raccontando i suoi 14 anni vissuti nelle Vele, che ancora sono il simbolo della zona e dei tanti errori compiuti dalla politica.
Oggi Emanuele ha 28 anni, si è laureato, insegna in una scuola ed è impegnato nel terzo settore. A chi, meglio di lui, possiamo quindi chiedere che cosa ha rappresentato Gomorra e come è cambiata Scampia nel tempo. A lui, che quando aveva solo 8 anni ha visto il primo morto ammazzato. A lui, che quando usciva di casa era circondato dagli zombie (come sono definiti i tossici nella zona). A lui, che in quell’ambiente si è avvicinato alla lettura grazie al fratello impiegato in una ditta che mandava al macero i libri: gliene portò a casa alcuni facendogli scoprire il modo per sfuggire a un destino che appariva già segnato.
Emanuele, che significato ha per te Gomorra?
Della serie non conosco neanche una scena, non l’ho mai vista. Non per snobismo, ma perché non ho attenzione rispetto alla fiction in quanto genere.
Però dal libro al film e poi la serie, immagino avrai notato quelli che sono stati definiti “gli effetti di Gomorra” sulla gente, in particolare i più giovani. O no?
Quelli sì, purtroppo. Li ho visti e li ho vissuti. Dopo l’uscita de “Il Ventre di Scampia” ho incontrato molti studenti, perché il volume è stato adottato da diverse scuole, così come tanti ragazzi nelle carceri minorili. Faccio solo un esempio. Un giorno ero ospite nella comunità ministeriale di Catanzaro e al momento delle domande un ragazzino mi ha chiesto se conoscessi Ciro di Scampia. Io gli ho risposto farfugliando, perché non avevo compreso: «Ma sì, ci sarà un Ciro a Scampia…». Lui non sembrò soddisfatto, ma solo dopo l’incontro la sociologa mi spiegò che si riferiva a Ciro l’Immortale, uno dei personaggi della fiction.
Lui te lo chiese come se fosse una persona reale e non un personaggio della fiction.
Esatto, il ragazzo non faceva distinzione tra realtà e fiction e mi sono chiesto quanto fosse comune ad altri questa percezione. Poi mi tornò alla mente quante persone dopo l’uscita de “Il Capo dei capi” volevano farsi la foto con l’attore Claudio Gioè credendo che fosse davvero Totò Riina. Da una parte questa percezione travalica le mie competenze, andando a scivolare nel campo cognitivo delle persone. Però quell’esempio mi è sembrato significativo. È la spia di una determinata ricezione dell’opera su una fetta di pubblico. Non so se è dominante o minoritaria, però è da prendere in considerazione.
Sarà l’ultima stagione, pensi che in fondo sia un bene?
Non dico questo, solo che il periodo della faida di Scampia l’ho vissuta in prima persona. Vivevo nella Vela Celeste, una delle piazze di spaccio più grandi d’Europa. Non ho avuto bisogno di vederla perché ho vissuto quello che ho vissuto. Ovviamente con le fiction c’è sempre il rischio della spettacolarizzazione. Parlare in quel modo di Scampia, però, può essere anche una occasione per dare opportunità a tanti di dire che non è più quella che si vede sullo schermo. Può aprire un dibattito e da Gomorra può nascere l’anti-Gomorra. Bisogna solo fare attenzione a non scivolare nel conformismo, nella retorica della narrazione del bene contro la retorica della narrazione del male. In entrambi i casi si possono creare dei luoghi comuni.
Quali?
È un problema di chi riceve il messaggio. Io, pur essendo nato in una famiglia sottoproletaria, sono riuscito a riscattarmi studiando, scrivendo, lavorando come insegnante e nel terzo settore. Ho gli strumenti culturali per fare distinzioni e accogliere un’opera in un certo modo. A chi invece non li ha, come la stragrande maggioranza del mio quartiere, bisogna fare un discorso diverso e più complesso.
Che discorso faresti?
Se parliamo di riscatto, servono investimenti sul capitale umano. Non basta l’università a Scampia, di cui si parla da più di dieci anni. È vero che potrebbe portare un certo flusso di persone, ma la mobilità non è quella degli autoctoni. Questo potrebbe creare illusioni sul fatto che Scampia è rinata, ma chi abitava nelle Vele, il “ventre di Scampia”, e ora è stato trasferito in palazzi un po’ più dignitosi, continua comunque a vivere i mille problemi legati alla disoccupazione. Il degrado lo sposti, però in qualche modo resta. Non sono così entusiasta di questa rigenerazione urbanistica. Non c’è ambiente da salvare se non si salva prima l’uomo.
Torno per un attimo a Gomorra, per chiederti cosa ne pensi di Roberto Saviano che è stato molto criticato soprattutto da chi abitava nei territori che ha raccontato.
Da letterato, posso dire che “Gomorra” è un libro davvero ben fatto. “La paranza dei bambini”, invece, per chi non è napoletano non se ne è reso conto ma dal punto di vista linguistico il dialetto riportato nei dialoghi non è napoletano, per nulla. All’università Federico II ho lavorato con il dialettologo della Crusca, Nicola De Blasi, il quale mi ha insegnato tanto in merito. Sul piano della qualità letteraria, credo che i libri successivi a Gomorra siano un po’ decaduti.
E sul suo impegno civile, non solo contro la criminalità organizzata?
Penso sia indispensabile, su questo siamo sulla stessa linea di pensiero io e Saviano. Uno scrittore non può assolutamente ignorare le problematiche della società. E l’impegno civile deve far notare le storture, perché il potere politico, utilizzando la propaganda, non può che voler conservare lo status quo minimizzando e nascondendo l’evidenza che invece mettono in risalto gli intellettuali. Ma verso Saviano sono anche critico su questo versante, per esempio quando lanciò l’idea di andare sulle navi fisicamente ad accogliere i migranti.
Cosa non hai apprezzato?
Che prima scrisse la lettera su Repubblica che si intitolava "Portiamo su quelle navi le nostre voci e i nostri corpi" e mesi dopo uscì il suo libro "In mare non esistono taxi". Non era un’idea nuova, già Pasolini diceva di gettare il corpo nella lotta avendo preso in prestito il pensiero dalla sinistra americana del ’68, però poi Saviano non è passato dalle parole ai fatti. Io non vedevo l’ora di partecipare, solo che sulla nave ci è andato soltanto per presentare il suo libro, non più nell'ambito civile ma inglobando il tutto nella promozione. Questo non l’ho condiviso. Sono trascorsi mesi, io e altri come Sandro Veronesi che aveva aderito saremmo partiti. Questo non mi è piaciuto.
E sul racconto che ha fatto della tua terra?
Posso dire che abbiamo entrambi trattato più o meno determinate tematiche, ma io nelle Vele ci ho vissuto, ho provato e continuo a provare a raccontarle dall’interno. Ci ho trascorso 14 anni della mia vita e penso che tutto quello che ho scritto non basti ancora. Ricordo bene il periodo dal 2004 al 2007 dove la faida ha fatto più morti rispetto a quelle precedenti di Cutolo negli anni ’80. Ho visto il mio primo cadavere a 8 anni, gli zombie ovunque. È stato un periodo davvero tosto.
Da “Il ventre di Scampia” a oggi cosa è cambiato e cosa deve ancora cambiare?
È cambiata l’attenzione, proprio per tutto questo clamore sollevato da Gomorra. Ma questa narrazione, un po’ forzata, della Scampia ormai riscattata non è ancora avvenuta.
Se dovessi spiegare che cos’è la camorra a un bambino, che parole useresti?
Bisogna fargli capire che è qualcosa di molto brutto, che uccide, un vero cancro della società e non lavorerei sul classico accostamento degli animali, come fanno alcuni. Perché in questo modo si crea un’altra dicotomia, tra il buono e il cattivo. E crearlo fin da piccoli, spesso inconsapevolmente, può generare una forma di barriera quando poi saranno più grandi. Lavorerei per esempio sul piano simbolico-metaforico dell’aria malata, in modo da agganciare la legalità all’ambiente. Perché lo ribadisco: non c’è ambiente da salvare se non si salva prima l’uomo.
Secondo te le Vele sono da abbattere o, come dicono alcuni, da mantenere come simbolo di certi errori da non ripetere?
Prima di tutto sono state un errore della politica. Il progetto dell’architetto era completamente diverso, lui stesso non ha mai voluto vederle di persona. Se la politica vuole demolirle per portare avanti la narrazione del riscatto non sarà altro che un lifting. Bisogna capire che se ci sono effetti deleteri nella società, non dobbiamo continuare a litigare su quanto siano deleteri perché continueranno a esserci. La questione è che non bisogna più produrre le cause. Se spostiamo la gente altrove, non è che poi smetterà di delinquere perché non abita più nelle Vele. Questo fa ridere.
Eppure, i progetti non mancano e questa volta sembra ci siano anche i soldi per cambiare il quartiere. C’è qualcosa che non ti convince?
Nel progetto di riqualificazione Restart Scampia, finanziato con fiumi di soldi di investiti, ho visto tanto spazio verde, tanta gente seduta e a fare i pic-nic, solo che non posso dimenticare che quando era sindaco Bassolino qui era già nata la villa comunale di Scampia che dopo poco tempo è diventata il regno dell’incuria. Perché, oggigiorno, la gente preferisce andare a chiudersi nei centri commerciali, in questi “non luoghi”. Dovremmo prima fare prima un discorso per riappropriarci della nostra periferia, perché se le persone hanno una crisi d’identità è perché sono lo stessi, i periferici, a essere stati geneticamente sradicati.
Quali realtà senti di segnalare che stanno lavorando davvero per il cambiamento di Scampia?
Il Gridas prima di tutto, che opera dagli anni ’70. È la storia del quartiere. E poi c’è il Comitato Vele, che va sostenuto se si vuole provare a dare un volto nuovo alla zona. Sono stati loro a partecipare al progetto di riqualificazione con il sindaco e, se non avessero insistito loro, anche la torre che è già stata abbattuta sarebbe ancora in piedi. Sono le due realtà lontane da politicizzazioni e consiglio di sostenerle. Molte altre lasciano il tempo che trovano, nascono e muoiono a ridosso delle elezioni o sfruttano il marchio di Scampia per ottenere finanziamenti dal politico di turno.
Tu hai scelto la poesia per il riscatto, un genere letterario che però sembra in via di estinzione. Invece a un giovane la consiglieresti?
Assolutamente sì, ancora di più oggi. Perché io e te, come tanti altri, stiamo diventando degli algoritmi. E lo sappiamo, l’algoritmo è certezza ma proprio per questo è deleterio. Mentre la poesia semina il dubbio è quindi è rivoluzionaria. Durante la faida di camorra, mio fratello lavorava in un deposito di libri destinati al macero e, invece di distruggerli, alcuni me li portava a casa. In quel modo ho scoperto Ungaretti, Pasolini, tutti i poeti del ‘900, poi Dante con la Divina commedia e da quelle letture ho capito che riuscivo a esprimermi soltanto in poesia, non potevo farne a meno. Io ce l’ho fatta a riscattarmi e non ho poteri sovrannaturali, per questo penso che tutti possano provarci.