Di Sanremo, questo 2021 ha rappresentato la 71esima edizione. E la prima, di una conduzione surreale in un’epoca difficile che ha visto i contatti umani farsi distanti e dunque uno spettacolo senza pubblico in sala. Anno 0 dell’epoca Covid, praticamente, e certo non sono mancate critiche e scetticismi confermati da share ed ascolti più bassi rispetto agli anni precedenti, seppur certo non poco consistenti. “La gente è arrabbiata”, dice Amadeus al suo secondo mandato come direttore artistico, ed in effetti forse è anche così. Comunque sia, come diceva Orietta Berti quest’anno addirittura tra i concorrenti: “Finché la barca va, lasciamola andare”. Detto alla buona, mettiamo da parte per un momento le immancabili polemiche e pensiamo semplicemente al risultato: i vincitori. Nel frullato di opinioni del “the day after”, rimane un festival che anche quest’anno, seppur con meno sketch e più monologhi, ha sfornato musica e talenti. Non solo: se c’è una cosa che l’Ariston del 2021 ci ha insegnato è che l’Italia “non è un paese per vecchi”. O almeno, lo è sempre meno.
Terminata alle ore 2.30, orario in cui la serata in discoteca è al bivio tra l’andare a letto e il restare tutta la notte, ad aspettare il podio si è fatta notte fonda. Con un Fiorello che si è inventato di tutto per tenere alto il morale ed un’orchestra investita dell’ansia non solo di suonare ma anche di applaudire al posto degli spettatori assenti, la tanto discussa kermesse della canzone italiana ha mescolato vecchio e nuovo per tutte e 5 le puntate, come quando si crea la playlist “misto” su Spotify andando dal rap trentacinquenne di Willie Peyote fino ai quasi 20 minuti di esibizione di Umberto Tozzi alle ore 00.45, con il rischio di chiudere gli occhi e perdersi il momento clou: il podio. Dal terzo posto del romantico Ermal Meta passando dalla coppia Fedez-Michielin dove a far da dama è stato lui ed il cavaliere lei, si arriva finalmente ai vincitori: i Maneskin, con il pezzo “Zitti e Buoni”.
“Trionfano al 71esimo Festival della canzone italiana… i Chiaro di Luna”! Strano? Un poco sì ed infatti, “Chiaro di luna” non è che la traduzione in danese del nome della band: non certo il modo in cui i quattro ragazzi romani si sono fatti conoscere al pubblico. Damiano David, Victoria De Angelis, Thomas Raggi ed Ethan Torchio sono saliti alla ribalta di schermi e radio nel 2017, in seguito alla partecipazione al reality X-Factor dove conquistarono il secondo posto. Per anni li abbiamo riconosciuti portando a casa Marlena: oggi sono loro a portare a casa un risultato. Una voce graffiante, a volte limpida altre ancora tesa come un violino impazzito, i Maneskin sono figli del nostro tempo e pupilli indiscussi di Manuel Agnelli, leader degli Afterhours, loro ex-coach e artefice di un duetto bomba durante la serata cover. Una vittoria, questa, che è forse la prova schiacciante di un mondo dove non è più solo l’adulto a dettar regole, ma anche i giovani riescono a farsi sentire prendendo la scena. Fluidi e seminudi, i Maneskin sono quel rock moderno dove non c’è più spazio per le etichette. Quello dove non si mangiano più i pipistrelli sul palco alla Ozzy Osbourne style ma si smorza la faccia da duri con uno stile più “dannatamente malinconico” in cui la matita nera si confonde in una tutina glitterata che sta bene sia a lui che a lei. Uno stile “fashion gipsy”, come dice Damiano: ce lo vedete Vasco Rossi con una mise aderente? No, eppure proprio lui ha espresso non pochi apprezzamenti per questa band vincitrice poco più che ventenne, a testimonianza che, con loro, i confini non solo non esistono ma sono completamente e benedettamente sfumati entro mille sfaccettature. Con i Maneskin non ci sono regole, dunque: una frase forte, se si considera il periodo attuale da noi vissuto dove sono proprio le norme a costituire il cardine della nostra quotidianità. La loro “Zitti e buoni”, in effetti, è un po’ questo: una provocazione dal testo forse un po’ adolescenziale, tra qualche parolaccia ed un grande classico dello scontro adulti-ragazzi che recita “siamo fuori di testa ma diversi da loro”. Si parla di un’ira che smuove, dicono: che crea rivoluzione e fa svegliare le coscienze. Quella ribellione che porta il cambiamento e che unisce il peace and love delle rivoluzioni del ‘68 con la trasgressione di musica e costume targata Guns Roses negli anni ‘80: paragone da prendere con le pinze, ma nemmeno così tanto. “Troppe notti stavo chiuso fuori, mo’ li prendo a calci sti portoni”: viene in mente un gruppo di screanzati stile Arancia Meccanica, ma anche una serata tra amici un po’ incupiti, schiacciati dalla quotidianità con la voglia di gridare al mondo che anche loro hanno diritto a un futuro. “E buonasera signore e signori, fuori gli attori: vi conviene toccarvi i coglioni (…) ho scritto pagine e pagine, ho visto sale poi lacrime”: i Maneskin cantano la difficoltà del nostro vivere, vista dagli occhi di ragazzi che insorgono, a suon di parole musicate.
La fascia dai 15 ai 25 anni esulterà come se fosse la vittoria di una generazione intera fino ad oggi molto giudicata e poco ascoltata; gli adulti più aperti li canticchieranno in ufficio esclamando poi un “che ci vuoi fare, il mondo è così ora” quando si sentiranno scoperti. Gli anziani, visibilmente colpiti dallo scettro rubato ad Ornella Vanoni, bofonchieranno che “è una vergogna”. E le fan di Fedez e Michielin, sostenuti dalla queen Ferragni a suon di stories e chissà cos’altro, non riuscendo a spiegarsi il secondo posto diranno che “è tutto pilotato”. Eppure i Maneskin sono così: giovani ed entusiasti. “Non è possibile”, ripete Damiano dopo la vittoria: e piange, mostrandoci anche il suo lato da cucciolo felice oltre all’imperscrutabile ed elegante cane randagio da palcoscenico. La band vincitrice è frutto di un mondo che sta cambiando le sue connotazioni: di preciso come, quello lo decideremo con calma. Ciò che adesso è importante è che l’imborghesito Festival è diventato con questi quattro ragazzi come una grande e variopinta famiglia. Una divinità un tempo intoccabile ed oggi molto misericordiosa, frutto della realtà con quel pizzico di eccesso di buonismo che ci contraddistingue accogliendo alla sua mensa i fratelli e le sorelle un tempo definiti come troppo strani, troppo timidi, troppo irruenti o semplicemente troppo inconsueti. La band gipsy-rock, seppur a volte ostentando il suo essere particolare, è in fondo l’emblema del normale possibile: un gruppo musicale formato alle medie, i componenti trovati tramite un annuncio su Facebook, la luce in fondo a un tunnel di fatica grazie a un reality. Sì, esatto: tutti possono e si dica quel che si dica, suonerà retorico ma se vuoi puoi e loro ne sono la prova. Prova non solo che cambiare si può (e certo con la mentalità degli italiani è un lavoro non semplice) ma che anche sorprendere, si può. Ebbene, tu sei lì davanti la Tv con pronostici alla mano: sei certo che vincerà la rassicurante comfort zone del pop, o il rap su misura per la Rai, o il sempre verde indie per i radical chic e invece – first reaction shock! - ti ritrovi il rock. Quello dei salti alla chitarra, delle meno urla ma più parole: quello un po’ diverso che riesce ad essere per tutti, non più solo di nicchia. “Eh ma allora non è rock!”, dirà la critica: va bene, forse ci vorrebbe un altro nome, uno un poco più specifico. Prima o poi salterà fuori, siamo sicuri: magari alla prossima edizione, sperando che non si debba cantare dai balconi.