Tutti adesso acclamano Lucio Corsi. Possiamo dire che siamo felici, noi che lo conosciamo da tempo, pure se ora ci sentiamo meno di nicchia, ci sentiamo meno talent scout - a noi convinti scopritori di talenti non resta che consolarci con Marco Castello e Post Nebbia, sull’orlo del mainstream anche loro -, siamo in definitiva in uno di quei rari momenti della storia in cui lo Zeitgeist - lo spirito del tempo - pare proprio accontentare tutti, da chi intravede in Corsi l’ultimo baluardo ideologico da schierare contro la mascolinità tossica a chi lo acclama come eterno ritorno del rimosso, quella gran filastrocca della musica dei miei tempi suonata dal vivo con le chitarre. Ma lo Zeitgeist, si sa, quel bastardo, dissimula e serve a farci sentire parte di una collettività tanto agognata quanto irraggiungibile. È così che alla fine di questa maratona di delirio collettivo che è stato Sanremo 2025 abbiamo voluto vedere in Corsi, e nel suo magnifico e irreale secondo posto, un tentativo di riconoscimento di tutti noi che ci sentiamo un po’ freak e andiamo cianciando di giorno in giorno alla disperata ricerca di inni generazionali per la nostra freakness. Ma il fermento esasperato di fine Festival si muove lungo due direttrici: la prima è quella del complimento iperbolico e grottesco che sta caratterizzando buona parte della stampa specializzata e non - che fino a una settimana fa ignorava il cantautore -, l’altra è quella, curiosa, insondabile, del dissenso a priori nei confronti di Corsi, spesso motivato da ingenuità estetiche e/o da una buona dose di malcelata malafede nei confronti della figura dell’outsider, che si sta accuratamente costruendo attorno al corpo gracile del maremmano. È qui che la parabola di Lucio Corsi rivela la sua vera unicità: abbiamo l’impressione di sentirci tutti d’accordo, quando nessuno di noi ha capito un cazzo.

Quando abbiamo assistito a un live di Lucio Corsi un anno fa - eravamo allo Spazioporto di Taranto - ci era parso di non credere, a noi disillusi, che finalmente fosse giunta in Italia una figura del genere, memori delle parziali eccezioni di Renato Zero e Ivan Graziani che infatti Corsi cita in continuazione. Siamo ancora oggi più che mai convinti - nonostante il pezzo sanremese appaia come un modesto tentativo di compromesso rispetto ai suoi lavori migliori - che il valore di Corsi vada ricercato al di fuori della freakness, dell’atmosfera onirica, della nostalgia fine a sé stessa suscitata da tutto il calderone di citazioni estetico musicali che il cantautore sfoggia con eleganza e - si noti bene - con umiltà.

Il valore di Lucio Corsi è infatti tutto insito nella storia: possiamo dire che nell’italia dei primi anni settanta - mentre nel mondo anglosassone si sfornavano ancora i capolavori di quello che poi si sarebbe detto classic rock (Ziggy, Transformer) - abbiamo avuto tanto progressive e tantissimo cantautorato di qualità, ma ci è mancata la figura del cantante, performer e autore rock modellata sui modelli di Bowie, Reed e Marc Bolan (i francesi se non altro ebbero quel surrogato che fu Jacques Dutronc) - in altre parole - ci è mancata la figura del rocker decadente, del performer che annunciava strafatto apatico e androgino la grande truffa che era stato il ‘68.

Renato Zero, nella sua magniloquenza e nella sua teatralità, non può valere come unico esempio catalizzante - il nostro discorso è più musicale che estetico - e tutto ciò che succede in Italia da Vasco Rossi in poi è al di fuori del nostro campo di indagine: in meno di dieci anni è già cambiato tutto e in primo luogo i riferimenti musicali: c’è stato il punk, è morto il progressive, l’arena-rock americana annuncia il pop rock commerciale che verrà per sfraganarci la uallera negli anni ottanta. Ma in quell’epoca che per prima intuì e denunciò la grande truffa civile sessuale ipocrita che erano stati gli anni sessanta si venne a codificare una forma di rock autoriale incentrata sull’individualismo, eversiva, copiosamente glam, in altri termini: decadente.

Parliamo di un periodo ben specifico che va dalla morte di Jimi Hendrix (1970) all’avvento delle prime aggressioni punk (1973-74): è qui che l’Italia ha peccato nel raccogliere musicalmente l’istanza antisessantottina - per motivi di ordine storico e antropologico che non approfondiremo - così come aveva peccato pochi anni prima nel raccogliere la stessa istanza sessantottina che in Inghilterra si andava codificando nel passaggio dal beat al blues rock e alla psichedelia poi: in Italia rimanemmo invece ancorati alla rassicurante canzone beat e il giorno dopo ci ritrovammo catapultati quasi senza mediazione nelle poliritmie da conservatorio dei musicisti classici che avevano scoperto la chitarra elettrica, i signori del progressive.

È così che Lucio Corsi arriva con un buon ritardo di cinquant’anni (che gli perdoniamo) a farci sentire come sarebbe suonato il rock decadente se Bowie e Reed avessero cantato in italiano, provare per credere: confrontate il pezzo di Lucio Corsi “Magia Nera” con “Hangin’ Round” e “Queen Bitch” e inizierete a provare questo sentimento nostalgico commisto a un certo piacere della scoperta, dell’ucronia (la storia alternativa), del “e se fosse andata così”, che Lucio Corsi è capace di suscitare. Qui è la sua cifra, qui il suo stile: non le chitarre la fiaba il sogno la freakness del corpo e dei testi, ma l’unione di due estetiche e due musiche: quella del glam drogato e anglosassone con quella del cantautorato italiano e letterato. Più che mai allora siamo convinti che sia giusto uscire dal bipolarismo del “mi sento-non mi sento rappresentato” tanto caro alla Gen Z (ma scopriamo pure a boomer e millennial) per entrare in prospettiva diacronica e valutare Lucio Corsi non per ciò che lui può fare per noi, ma ciò che noi possiamo fare per lui: godere, aspettare e vedere adesso cosa combina.
