La routine. È difficile fuggire la routine, quando ci si ritrova ogni santo giorno a fare il medesimo mestiere. Anche se quel mestiere coincide, più o meno, con quella parte della vita di tutti i giorni che gli altri identificano con lo svago, a volte addirittura con la passione smodata. Certo, è un concetto difficile da far capire agli altri, perché magari la routine coincide esattamente col loro mestiere, e guai a farlo notare, perché passeresti in un nanosecondo all’essere identificato come il figlio casuale di una notte di sesso selvaggio tra un radical chic (i radical chic, è noto, non fanno sesso, figuriamoci se fanno sesso selvaggio, ma qui siamo nel campo dell’immaginario) e l’ultimo dei coglioni, uno che pensa sul serio che il lavoro nobiliti l’uomo, e quindi che lavorare facendo qualcosa di poco interessante sia in qualche modo tradire una causa alta. Quindi sei lì che ti lamenti tra te e te, cercando nuovi stimoli consapevole che non ne troverai, hai letto da qualche parte che anche gente come Uma Thurman è stata tradita, credo non serva aggiungere altro. Col tempo, perché ormai è un po’ che quello che da giovane sognavi sarebbe diventato il tuo mestiere, pur non chiamandolo esattamente con questa parola, appunto, è diventato in effetti il tuo mestiere, col tempo hai anche escogitato dei piccoli trucchi, escamotage neanche troppo sofisticati per tenersi svegli, come quando si guida di notte e si tira giù il finestrino sporgendo la testa di fuori, perché l’aria fresca, anche d’estate, in qualche modo ci tenga svegli. Trucchi che però alla lunga diventano a loro volta parte della routine, un cambio di posizione, si parlava prima di sesso, che diventa a sua volta canonico, Totti al centesimo cucchiaio, bello, certo, ma zero sorprese, forse addirittura noia. Qualcosa, per altro, di non troppo diverso dalla storiella di “al lupo, al lupo”, seppur stavolta non ci sia nessuno che viene sbranato, perché alla lunga ci si abitua a tutto, anche all’essere allertati per un imminente pericolo, figuriamoci a qualche trucchetto da cantastorie. Per dire, e smettendo di menare il can per l’aia (giorni fa ho letto uno che in teoria nella vita dovrebbe essere uno scrittore dire “menare il can per l’aria”, quella sì che è stata una piacevole sorpresa, seppur fosse un dire privo di qualsivoglia spirito ironico o scherzoso), partendo dal presupposto che titolo e foto di copertina vi abbia già spoilerato l’oggetto di questo pezzo, sì, sono così spavaldo da pensare che la gente, cioè voi, leggerebbe quel che scrivo anche privo di indicazioni di massima, del resto i miei pezzi tradiscono praticamente sempre l’oggetto indicato nel titolo e dalla foto di copertina, o almeno lo tradiscono secondo una logica, diciamo, stringente, perché mi piace raccontare che in realtà sto parlando di quell’oggetto anche mentre parlo di altro, in prevalenza e apparenza i cazzi miei, quindi partendo dal presupposto che titolo e foto di copertina vi abbia già spoilerato l’oggetto di questo pezzo vi abbia già fatto ben capire che sto parlando di Solite chiacchiere, il nuovo singolo di Francesca Michielin, e mettendo subito sul piatto la consapevolezza, anche quella abbastanza spavalda, che sia noto ai più, almeno ai più che mi leggono, che non nutro una stima altissima nei confronti della cantante di (se ce la fate infilate voi il titolo di un brano famoso del suo repertorio, a me non ne vengono in mente, titolo atto a non farmi ripetere all’interno della stessa frase, seppur frase lunghissima e infarcita di relative, tipiche del mio stile, il suo nome e cognome), ho giocato subito uno di quei trucchetti. Così, in partenza, senza andar poi a introdurre figure per me conosciute, anche laddove variamente pimpate, di persone che appartengono al folder “mia vita privata” e che poi uso, appunto, arbitrariamente per andare a parlare d’altro. Il trucchetto consisteva, sono un mago che sta spiegando l’inspiegabile, non perché troppo difficile da spiegare, come, che so?, la teoria dei buchi neri, ma perché esisterebbe un codice deontologico che impedisce ai maghi di spiegare i propri trucchi, amen, il trucchetto consisteva nel giocare in una zona d’ombra, chiamiamola pure ambiguità, dove lasciavo intendere che la routine di cui mi lamentavo fosse quella di chi, come me, si trova a scrivere tutti i santi giorni di musica, fatto che spesso mi viene indicato come una botta di culo che ispira l’invidia benevola dei miei interlocutori (non botta di culo perché ritenuto un lavoro svolto immeritatamente, ma perché un lavoro evidentemente ambito dai medesimi interlocutori, in genere, qui torno a essere il figlio della notte di sesso selvaggio di cui sopra, in genere gente che ha la tredicesima e pure la quattordicesima, che se sta male ha la malattia pagata, che quando termina l’orario di lavoro pensa a altro, non fatemi andare oltre, vi prego, fermatemi, scritto con il sangue su una parete della scena di un crimine). Dicevo, anche io a volte mi perdo tra le relative, che giocavo su una zona d’ombra, dove lasciavo intendere che la routine di cui mi lamentavo fosse quella di chi, come me, si trova a scrivere tutti i santi giorni di musica, fatto che spesso mi viene indicato come una botta di culo che ispira l’invidia benevola dei miei interlocutori, io a cercare quei trucchetti per mantenere vivo un rapporto altrimenti destinato a spegnersi, ma al tempo stesso potevo lasciar intendere, a chi non fosse rimasto schiacciato sotto questo profluvio di parole, che la routine fosse quella con la quale deve fare i conti proprio Francesca Michielin, lì a ripetere ogni tot il compitino di tirare fuori una nuova canzone, provando a suscitare non tanto il proprio interesse, dubito che alla Michielin piacciano realmente le canzoni che propone, quanto piuttosto quello del pubblico, in fondo è il pubblico che sancisce il successo di un brano, seppur accompagnato nel farlo da tutte quelle forzature che impongono i brani nelle playlist di Spotify, in quelle delle radio e via discorrendo.
Routine, da qualsiasi parte la si voglia guardare. Anche se, parlo per me, per questioni di anagrafe e anche per scelte di vita mi trovo a vivere una fase professionale per cui scrivo in genere di quel che mi interessa scrivere, quindi la routine si è in qualche modo autoridimensionata, limitandosi a occupare militarmente proprio lo spazio dello stile, non quello dei contenuti, la forma e non la sostanza, seppur io ritenga che la forma è sostanza e che dei contenuti, in fondo, non mi è mai fregato nulla. E anche se, parlo indebitamente per la Michielin, lo so, lo so che quell’articolo davanti a un cognome di donna è un retaggio del patriarcato, perché non dire, che so?, il Renga, ma siccome la Michielin, appunto, e arrivo al punto, porta avanti da tempo un podcast femminista, Maschiacce, di una banalità sconcertante, mi sembrava legittimo giocare sullo stesso piano, volutamente urticante, anche se, quindi, parlo indebitamente per Michielin, ora posso smettere di fare il sessista, la sua carriera è talmente a 360° che dubito la routine ne faccia parte, canzoni, programmi, podcast, appunto, spettacoli teatrali, conduzione di talent, direzioni d’orchestra al Festival di Sanremo, essere polistrumentista, prendersi la triennale in canto Jazz al Conservatorio e quindi spiegare armonia mentre fa karaoke all’Arca, il sabato sera, collaborazioni eclatanti come quella con la Milano Music Week, varie e eventuali. Una sorta di decathleta, non so se si dica così, dubito, ma non ho voglia di andare a cercare su google, che passando dalla corsa campestre al nuoto, improvviso, nulla so di questa multipla specialità olimpica, neanche se sia in effetti specialità olimpica, possa mai trovarsi a annoiarsi nel fare questo e quello, spesso contemporaneamente o comunque a distanza di pochi minuti. Certo, potrei lasciarmi andare alla routine dire che Michielin fa tutte queste cose male, anche perché fa tutte queste cose, va bene essere multitasking, ma magari concentrarsi sul fare bene qualcosa soltanto aiuterebbe, ma sarebbe appunto routine, tornare su un argomento già sviscerato tante e tante volte, anche perché io routinariamente ho scritto le pagelle di X Factor, da lei condotto, quindi semplicemente mi ripeterei. Non che ripetersi sia sempre un male, non sono Paganini, ma le variazioni Goldberg hanno un loro perché, ripetizioni che in realtà non ricalcano mai la stessa versione di un canone, anche il jazz in fondo parte di lì, ben lo sa Michielin che l’ha studiato. Per dirla con il Max Catalano di arboriana memoria, sarebbe meglio saper fare tante cose bene che saperne fare una soltanto male. Saperne fare tante male, beh, credo sia un mix tra l’accanimento e l’autolesionismo.
Ma nel parlare del nuovo singolo di Francesca Michielin, come d’uso di questi tempi giunto a pochi mesi dall’uscita dal suo ultimo album, Cani sciolti, non certo quello che si potrebbe indicare come un blockbuster né come un capolavoro, numeri e arte non vanno quasi mai a braccetto, ma il non incontrare i numeri spesso non equivale all’avere un valore incompreso, si tratta proprio di non valore compreso, a distanza di pochi mesi dall’uscilta dall’ultimo album ecco che arriva un nuovo singolo, in quell’album non contenuto, Solite chiacchiere. Una canzone che ci viene raccontata come un ritorno all’indie-pop che sarebbe il suo marchio di fabbrica (in effetti - aggiungere i titoli dei suoi grandi successi - sono tipiche espressioni dell’ondata indie, al pari di, che so?, i brani di Calcutta, TheGiornalisti, Coez o I Cani, chiedo scusa se non l’avevo capito, che non è un titolo di una canzone indie, pur sembrandolo, ma una mia pubblica scusa), ma che nei fatti, veniamo al punto, è una canzone irrilevante, dove per di più la voce della nostra è appoggiata su una melodia talmente banale da risultare quasi irriconoscibile, che abbia una bella voce è indubbio, in genere. Era questa la routine di cui parlavo. La sua nel portare avanti una carriera senza picchi, forse anche senza vita, e la mia nel sottolinearlo, perché una canzone routinaria non la si può raccontare che con la routine, per mimesi. Potrei dire: peccato, occasione persa, ma non credo che ci sia occasione persa nel non azzeccare mai qualcosa, semmai la constatazione amichevole che niente c’è da azzeccare. Nella speranza che prima o poi mi potrò giocare il trucchetto di far finta di aver trovato routinaria una canzone che in realtà mi ha sorpreso (quella del giocarmi la carta routinaria del pensare che una canzone facesse cagare, fingere che così non sia stato per poi arrivare alla chiosa in cui confermo che fa cagare l’ho usata mille volte, routine, appunto). Spero abbiate almeno apprezzato che non ho fatto stupidi giochi di parole col titolo, e che non abbia citato Ivan Graziani, a tutto, credo e spero, c’è un limite.