Gli chiedi come fa ad avere successo scrivendo versi e ti risponde che è “grazie a un elemento di consolazione”. Lo solleciti sui detrattori dopo la poesia dedicata a Giulia Cecchettin e ribatte: “La psicanalisi cura con le parole, perché la poesia non potrebbe essere curativa?”. Lo provochi che è diventato un poetry coach e non si scompone: “Non credo alla figura del santone”. Ma se lo porti verso le polemiche non si sottrae: “Non sono l’anti-Ferragni”, assicura, mentre si dice certo che l’Italia, dopo i saluti romani di Acca Larentia, “non è in una condizione di emergenza rispetto alla democrazia”. Però subito dopo precisa: “Mi infastidisce parlare di attualità”, perché chi lo fa (la maggior parte delle persone, aggiungiamo noi) “sono dei ruminanti, esce un argomento e ruminano su quello per alcuni giorni”. Così le parole, di cui è innamorato, “le vedo usate più per alzare fumo che per cambiare qualcosa. Impediscono la visibilità invece di aumentarla”. Lui è Franco Arminio da Bisaccia, Comune di 3mila e 500 abitanti della provincia di Avellino, il poeta oggi più famoso e criticato d’Italia. Lo abbiamo intervistato perché, oltre a essere uscito con un libro che si intitola Canti della gratitudine (Bompiani), in mezzo a tante cose che si dicono e si scrivono, ci ricorda che bisognerebbe “costruire un mondo più grato, più gentile e più attento”. Parlare va bene, intervenire sui social pure, ma “uno che è dolce, quieto e interessato al dolore degli altri, difficilmente può diventare un fascista”. E ci ha spiegato perché, rispetto al passato, non è vero che la cultura è meno presente nelle nostre vite, solo che spesso si pensa più a chi la produce che a chi ne fruisce. E ci confessa perché, nonostante il successo, si sente "sotto assedio".
Franco Arminio, la poesia ha ancora un ruolo sociale nel 2024?
Più che della poesia parlerei del ruolo dei poeti. Anche perché, in linea di massima, rispetto a 30 anni fa si legge molto di più grazie ai social.
Si legge di più, però sembra avere meno impatto nel dibattito pubblico e nelle coscienze.
Vale per la poesia e per la cultura in generale. Quando Rocco Scotellaro vinse il premio Viareggio nel 1954, Pietro Nenni, segretario del Partito Socialista, scrisse un editoriale sull’Avanti per vantarsi del fatto che un socialista era arrivato primo. E invece i critici letterari lo attaccarono. Ma allora era qualcosa che riguardava poche persone, perché la società non era complessivamente informata. C’era una piccolissima parte che prendeva sul serio la cultura. È vero che esisteva un maggiore dialogo con la politica, solo che nella popolazione moltissimi non sapevano leggere e scrivere.
Oggi invece abbiamo un ministro della Cultura come Gennaro Sangiuliano che, al Premio Strega, ammette candidamente di aver letto solo le copertine dei libri…
Allora non tutti erano così raffinati, ma c’era una selezione diversa della classe politica attraverso le sezioni dei partiti, con una sorta di trafila prima di arrivare in Parlamento. Era un altro mondo. Il politico arrivava a un certo ruolo con una competizione estrema. Per arrivare a essere candidato doveva fare una gavetta molto lunga. Nel Pci venivano candidati ed eletti degli intellettuali, adesso questo non avviene più. Oggi sono interessati ai personaggi televisivi. Sono cambiate le cose e per la poesia, se prendiamo come punto di riferimento gli anni ‘50-’60, c’era un canale in meno di circolazione: la rete.
E quindi?
Le poesie stavano nei libri, come sono sempre, solo che ora stanno nei libri e in rete. Sia poesie come le mie e di altri poeti contemporanei, che mettiamo noi o i nostri lettori, che si aggiungono a quelle degli autori del passato che sono scomparsi.
Sul quotidiano Il Mattino il giornalista Generoso Picone ha parlato di “arminismo” in relazione al fenomeno legato al suo successo. Lei si è mai chiesto cosa significa?
È una definizione che, credo, ha coniato il giornalista, non penso sia una categoria riconosciuta.
Eppure, a parte le definizioni, in tanti negli ultimi anni vedono in lei la figura in grado di aver riportato la poesia a livelli di vendita e di impatto per molti anni impensabili.
Ci sarebbe tanto da dire. Partirei ricordando che ho pubblicato un primo libro di poesie nel 1985. Poi ho proseguito e fino al 2017 non hanno avuto una grossa circolazione. Dopo Cedi la strada agli alberi. Poesie d'amore e di terra (Chiarelettere, ndr) ha venduto e ancora vende, ha segnato uno spartiacque. Dico questo perché il mio lavoro non è nato negli ultimi anni. In generale, oltre a me, ci sono stati poeti che hanno avuto attenzioni come Chandra Livia Candiani, Mariangela Gualtieri, Patrizia Cavalli, Michele Mari e altri. Oppure il fenomeno di Alda Merini.
Ma nel suo caso come se lo è spiegato?
Ritrovo un elemento di consolazione. Essendo un mondo di spaventati, ed essendo io stesso uno spaventato, visto che parlo spesso del timore della morte, forse si è innescato un po’ lo stesso processo di chi ama i film dell’orrore. Attraverso quelle opere elabora la paura. Nel frattempo sono crollati altri intermediari di analisi dei conflitti, come la politica e la religione. Insomma, per essere brevi, la mia poesia ha degli elementi consolanti che mi vengono testimoniati da tantissime persone che mi scrivono dicendo “ti leggo prima di andare a letto”, oppure “ogni mattina mi fa bene leggerne una” e “dopo una scomparsa mi hai aiutato”.
Non sarà diventato anche lei un mental coach, o ancora meglio un poetry coach?
Ma no, non mi sembra di averne neanche l’atteggiamento mentale. Così come caratterialmente sono abbastanza inquieto, non ipocrita e istintivo nelle azioni. Non credo molto alla figura del santone che conosce il segreto per stare bene e essere felici. Semplicemente, raccontando certe cose con sincerità, ci sono dei lettori che si riconoscono.
Quindi la sua è una poesia curativa.
La psicanalisi cura con le parole, quindi perché per una persona non potrebbe essere curativa la poesia? Come mai questo elemento di cura, che dimostrano i lettori, viene visto con sospetto? Perché non può essere positiva? Cosa c’è di male? È evidente che le persone non sono spinte da poteri occulti verso la mia poesia. Per cui, se vengono lenite le loro ferite dalla lettura di questi versi, evidentemente sentono che in quelle parole c’è una verità. E spero gli faccia bene, davvero. Questo, forse, ha portato all’aumento di attenzione verso il mio lavoro.
Passando al tuo ultimo libro, Canti della gratitudine (Bompiani), affronta un tema che è molto trascurato nella società attuale e hai spiegato: «Sono passato da militante dell’inquietudine a un consolatorio militante». Cosa significa?
Che ero e sono molto inquieto, quindi è un paradosso che una persona così inquieta sia stata eletta a consolatore per tante persone. Per tante mi riferisco, comunque, a una piccola fetta di società. Non sono un professionista della cura e non sono uno psicoterapeuta.
Come mai vede intorno a sé così poca gratitudine?
Perché mi sembra un tempo ingrato, dove tante persone si lamentano e poche ringraziano. Tutti vogliono essere visti e nessuno vede. Come nel mio libro precedente, Sacro minore (Einaudi, nda), e in altri c’è una coerenza di fondo. Mettendoli insieme mi sembra che si noti un percorso per riportare a galla qualcosa di arcaico che sta scomparendo e che provo, in qualche modo, a riportare in evidenza. Un po’ come la “letizia”. Ho organizzato l’evento I giorni della letizia a Bisaccia perché letizia è una parola che non usa più quasi nessuno.
Sembra quasi che lei si opponga a un altro mondo, come quello dei social, dove dominano il lusso, i soldi, il successo e le apparenze. Una sorta di anti-Ferragni?
Sui social non c’è poi tutto questo lusso, a me sembra un luogo nel quale tanti poveri cristi, che in passato non avevano né arte né parte, grazie al mouse adesso scrivono e esprimono in modo sgangherato opinioni. Poi c’è gente che segue gli influencer, anche se, a parte pochi, non vedo tutta questa ricchezza. Tanti cercano, invece, in modo umanissimo, di dire qualcosa per farsi notare e altri provano a esprimere un pensiero sinceramente. In questo senso non mi sento l’anti-Ferragni, ogni fenomeno andrebbe analizzato a parte.
Eppure il suo pubblico sembra fedelissimo.
Forse perché parlo della fragilità e le persone sentono di avere una certa fragilità che non riescono a esprimere, quindi attraverso le mie poesie percepiscono una vicinanza. Oggi ho scritto una poesia sui piccoli paesi e c’è stata una bella reazione. Ma dipende come le dici le cose, non tutto funziona. Non è che ogni colpo che sparo va a segno, c’è una grande fatica quotidiana per avere un po’ di attenzione. Si riparte sempre da zero, almeno nella poesia. Se faccio un libro non ho 100mila lettori assicurati. Posso farne 5mila o 10mila, però è sempre un libro dopo l’altro che si accumula, non c’è niente di scontato.
Non basta un click?
No no, uno deve andare in libreria. Come chi viene agli incontri, non è automatico che si compri il libro, lo fan dopo un’ora o due mi ha sentito e se lo ho convinto. Dopo che l’ha letto può scattare un altro meccanismo e si compra il secondo e magari lo consiglia a un amico.
Quando ha dedicato una poesia a Giulia Cecchettin, la ragazza uccisa dall’ex fidanzato, è stato accusato di cavalcare una tragedia. C’è anche un po’ di opportunismo in alcune uscite?
In quella poesia mi auguravo subito che il caso di Giulia diventasse uno spartiacque. Non è stato solo merito di quel componimento, che era una poesia d’occasione e non aveva l’ambizione di diventare un testo letterario che finirà in un libro, ma un po’ è successo. L’ho scritta perché ebbi l’impulso a farlo. E poi, scusa, se una tv o un giornale chiede una poesia, non credo che nessun poeta avrebbe detto di no, giusto? O come quando parliamo della morte di un nostro familiare o di un altro tema, lo scrittore dovrebbe portarsi addosso questo sospetto? E ancora, che diritto avrei di dire che Candela è un paese spopolato? Eppure lo faccio. Estremizzando, allora, uno non dovrebbe più scrivere nulla.
Come si può uscire dal sospetto?
Questo è un mestiere che ha sempre un rischio. Come per il torero che, per uccidere il toro, deve combattere molto vicino alle sue corna. Perché, quindi, un poeta non deve parlare di attualità? Quando parlo di paesi abbandonati non c’è problema e se parlo della morte di Gianluca Vialli o di Diego Armando Maradona sì? In fondo ho 63 anni e non è da ieri, come pensa qualcuno, che ho scoperto questo ‘giochino’. Se non ci fosse tutta la mia ricerca letteraria precedente lo capirei, ma siccome c’è, con più di trenta libri pubblicati, oltre a una dedizione e un abbandono estremi alla poesia, mi sembra una critica totalmente fuori strada. Capisco che in questa società l’equivoco sia molto facile, spesso ti scambiano per qualcos’altro. Poi c’è chi lo fa in buonafede e chi lo fa in cattiva fede.
Sarà che l’Italia è un Paese che non accetta il successo, in particolare quello altrui?
Si spiega perché l’Italia, anche se vuole dirsi moderna, è ancora un paesotto con le sue dinamiche dove l’invidia è un sentimento molto diffuso. Ma è antichissimo e diffusissimo, chissà però come funziona in Russia o in Cile. Ma credo che, se in Italia ce n’è di più, è legato a una mentalità rurale che poi si riverbera in molte espressioni della vita civile. Per esempio, dimmi un italiano che in questo momento gode del consenso di tutti. Non esiste! Del resto, anche quando gli italiani assegnano il loro consenso a qualcuno, dopo poco glielo tolgono, da Mussolini a Craxi a Renzi. Hanno questo atteggiamento di portarti in alto e poi abbatterti. Sintetizzando potrei dire che manchiamo di serietà, abbiamo questo difetto.
Mentre di cultura si parla poco, da una settimana ci si divide sulla manifestazione di domenica scorsa a Roma per commemorare i morti di Acca Larentia, tra saluti romani e parole d’ordine riemerse da un periodo buio della nostra storia. Un nuovo rischio fascismo?
Non mi pare che in tutta Italia ci siano adunate di questo tipo. In certe città ci possono essere bolle di fascisti, inutile girarci intorno. Altro discorso è il governo e chi ha votato la Meloni, non credo siano tutti fascisti. Ecco, una delle malattie di quest’epoca è l’opinionismo. Cioè lanciare frasi astratte e generiche che vogliono riassumere il tutto, quando invece andrebbe avvicinato pezzo per pezzo e analizzato. A me non sembra che siamo in una condizione di emergenza rispetto alla democrazia, mentre mi pare che siamo in una condizione di spappolamento della società. Pensando ai piccoli paesi è un elemento drammatico.
Prima di “arminismo” ha ispirato il termine “paesologo”.
Ben venga se serve a ricordarci che un pezzo di Italia è abbandonato a sé stesso e in certi paesi nove case su dieci sono chiuse e nessuno se ne occupa. Luoghi pieni di solitudine e depressione. A me preme questa faccenda e uno potrebbe dirmi che c’è anche la guerra, oppure che ci sono le adunate fasciste. Non è che non me ne voglia occupare, solo che c’è sempre questo ed altro. Come lo combatti il fascismo? Con una frase contro i fascisti o costruendo democrazie e relazioni di qualità? E se mi sento in relazione con le piante e gli animali, con i fragili e gli ammalati, sono di sinistra? È un alfabeto che non mi appartiene.
Siamo schiavi dell’ultimo tema in trend di attualità?
Mi infastidisce parlare di attualità, un po’ come si è fatto durante il periodo del Covid tra vaccini sì e vaccini no. Mi sembra sempre un pretesto. Per me ognuno di noi dovrebbe costruire un mondo più grato, più gentile e più attento. E uno che è attento, dolce, quieto e interessato al dolore degli altri, difficilmente può diventare un fascista.
Oltre alle poesie, nel suo libro Canti della gratitudine sono interessanti i ringraziamenti finali. Non solo una lista di nomi, ma scrive: “Anche se non c’è tregua a parlare, in fondo questo è un mondo di taciturni”.
Ultimamente di cose che mi spostano la giornata ne sento poche. La gente non ha un grande slancio immaginativo. Sono dei ruminanti, esce un argomento e ruminano su quello per alcuni giorni. Così la società mi sembra piuttosto ferma, ha un grande agitarsi ma sul posto. Come su un tapis roulant siamo sempre nella stessa stanza. Io penso che serva spostarsi e la poesia è uno strumento per conquistare sé stessi. È una fatica, come la gratitudine. Praticarla, non solo descriverla. Molti descrivono la luce ma non la danno, anche in poesia. È quello che fai realmente, non quello che dici, l’importante. Uno può dirsi antifascista e non lo è, democratico e poi non esserlo. Io amo follemente le parole, solo che oggi le vedo usate più per alzare fumo che per cambiare qualcosa. Impediscono la visibilità, invece di aumentarla.
E nei ringraziamenti prosegue: “Ho fatto tutto quello che potevo, senza eroismo, per un accanimento mio, per una questione, credo, con la mia infanzia, per un debito che mi porto dentro”. Qual è questo debito che sente di dover ancora pagare?
Ognuno ha il suo punto di partenza. Io ho questo dolore, una angoscia di morte legata a esperienze vissute nei miei primi mesi di vita che non ho mai elaborato. Vivo ogni giorno come se fosse l’ultimo. Se mi chiedi di vederci il 20 aprile e siamo a marzo, io penso a chissà se ci arrivo. Veramente il sentimento della precarietà per me è reale, non è solo è letterario. Anche per questo, per me, tutto quello che viene detto sul mio lavoro lo sento lontano, perché non si tiene conto di questo punto di partenza di precarietà estrema. Io vivo assediato.
“L’assenza è un assedio”, come cantava Piero Ciampi?
È come se fosse un tumore, però, non ti puoi fare la tac e vederlo. E la scrittura è come fosse una sorta di chemioterapia e con essa io provassi a bombardare questa angoscia che mi circonda. Ingaggio ogni giorno un testa a testa con il mio corpo e con il tempo.
Mi sembra che il successo non le abbia dato alla testa.
Questo minimo di attenzioni che sto ricevendo non scalfiscono di un millimetro la mia dimensione. Non ho mai detto “ce l’ho fatta” e non sono mai compiaciuto. Sono esattamente insicuro e spaventato come tanti anni fa. Forse è questo che i lettori colgono. Sai, uno ogni tanto potrebbe fare il vanitoso con certe dichiarazioni, ma io sono convinto che il lettore abbia una propria intelligenza. Così non capisco perché non ci fidiamo delle persone. Dovremmo ragionare molto di più su cosa vogliono i lettori. Leggere è un gesto così prezioso che dovremmo amarlo molto di più.
Torniamo all’inizio, essendoci più lettori sono cambiati i canoni di fruizione della cultura?
Sì, bisogna pensare di più ai lettori e al contesto letterario che è cambiato, che non è più quello di prima. Più che sullo scrittore e sulla poesia, bisogna chiedersi chi sono i lettori, perché leggono e cosa vorrebbero. La platea è molto più vasta rispetto a quando in tanti non sapevano leggere e spesso questo ce lo dimentichiamo.
A riprova che non si è montato la testa, per chiederle un’intervista è bastato un messaggio senza intermediari come manager o uffici stampa.
Guarda, l’altro giorno ho fatto un giro di incontri in cinque paesi e ho venduto 2 libri, eppure sono contento perché ho visto dei luoghi bellissimi. Per me è sempre un miracolo che qualcuno compri un libro o venga a incontrarmi. Non sono un intellettuale figlio di intellettuali e allevato con certe logiche. Io sono figlio di un oste e in fondo ho nell’animo quella postura. Sono cresciuto in una osteria e mio padre i clienti li accoglieva a casa sua, mentre io i lettori li vado a prendere nelle città e nei paesi uno per uno. E non una volta e per sempre. Come mio padre, se li faceva mangiare male non tornavano. Non è un gioco così banale avere delle attenzioni in un mondo così egoistico e diffidente. Per questo, se qualcuno gode di attenzioni, bisognerebbe chiedersi perché e cosa vuole davvero la persona che cerca.