Si narra che durante la Grande Depressione in America i contadini venissero pagati per non fare crescere nulla nei campi, tale decisione aveva lo scopo di aumentare il valore di alcuni prodotti.Delle volte penso che lo stesso ragionamento si possa applicare al cinema italiano, a quella rinascita o resurrezione ancora non pervenuta. Ecco perché, in questo deserto del reale, Enea di Pietro Castellitto, ha tutto sommato convinto la critica che l’ha visionato, in concorso, durante l’ultima Mostra del cinema di Venezia. Dopo I predatori, presentato anni fa a Venezia ma nella sezione Orizzonti, Castellitto figlio esce l’11 gennaio con il suo secondo lungometraggio. Non troviamo solo il comico Giorgio Montanini (già presente nel primo film) ma la famiglia Castellitto quasi al completo, padre e fratello che interpretano, per l’appunto, il padre e il fratello (attenzione spoiler!). La storia è semplice e si sviluppa su due livelli, in cui Enea (Pietro Castellitto) viene da una famiglia della media/alta borghesia (padre psichiatra, madre scrittrice interpretata da Chiara Noschese) e gestisce un ristorante fighetto; poi c’è l’altro livello di racconto dove col migliore amico e aviatore Valentino (Giorgio Quarzo Guarascio aka “Tutti Fenomeni”) gestisce un piccolo traffico di droga parallelo alle attività legali. Castellitto stesso, a Venezia, ha definito il film una “gangster story senza gangster” e al di là della fotografia di Radosław Ładczuk e alcuni brani non originali come Bandiera Gialla o Maledetta Primavera – e non quelli curati da Niccolò Contessa—direi anche che è una gangster story senza story, per l’appunto. È un problema avere cattivi maestri e uno di questi è il Paolo Sorrentino più deteriore, l’estetica di Luca Guadagnino (qui tra i produttori) e suo malgrado — essendo lui un autore geniale — Bret Easton Ellis. Ellis scriveva della borghesia bianca annoiata e privilegiata a vent’anni, al giro dei trenta il regista di Enea dovrebbe iniziare a fare i conti col tempo che passa e col fatto che è fuori tempo massimo parlare della nostalgia per l’amore della sua generazione (si potrebbero obiettare molte cose sul presunto romanticismo dei Millennials e di quanto oggi non trovi terreno fertile). Forse Castellitto pensa al suo Enea come il Victor Ward di Roma Nord, bello (?), imprenditore, che si ritrova a vivere situazioni estreme: se per Victor e gli altri contavano la bellezza e l’estetica (anche dei gesti) qui il personaggio di Enea — e di Pietro stesso — nascondono ogni bassezza morale per il desiderio di sentirsi vivi.
È vero che delle volte il dolore è tutto ciò che abbiamo, e non vogliamo lasciarlo andare per non guardare quel vuoto pneumatico che siamo diventati (ecco perché viviamo nell’epoca del piagnisteo e delle incubatrici emotive) ma questo dolore a monte dei comportamenti di Enea, come di Valentino, non è riscontrabile da nessuna parte. Che sia un dolore ereditato dai nostri genitori (quelli di Enea sono infelici, a modo loro) che passa geneticamente di generazione in generazione? I protagonisti tentano di “resistere agli eventi della vita” mentre il pubblico si chiede: quali eventi? Quale vita? A meno che Roma Nord non sia per il regista l’equivalente italiano di Clayrton de Il cacciatore di Michael Cimino, una culla che è la propria stessa tomba. Che cosa perversa ho fatto: accostare un film di Cimino a uno di Castellitto figlio. Enea non è neanche freddo, spersonalizzato, e non ha quella violenza anti-emotiva dei personaggi a cui Ellis ci ha abituati: forse è più simile a un dodicenne, che nelle private stanze di camera sua, fa lip-sync su TikTok con l’ultima canzone di (Kan)Ye West. Enea conosce una ragazza (Benedetta Porcaroli) e la vuole sposare proprio perché sembra un personaggio Npc, così che possa continuare indisturbato a fare il traffichino sulla Tesla, tra una partita di tennis e l’altra con gli imprescindibili airpods nelle orecchie. Enea non ha entusiasmato a Venezia (cosa successa per Poor Things, preparatevi che è in uscita) ma non ha neanche conosciuto gli schiaffi morali che meritava: abbiamo tutti gli elementi presi da diversi generi cinematografici (il dramma familiare, la commedia, il noir) ma niente che li leghi dando un senso al film che rimane una penosa dichiarazione d’intenti o di guerra. Pietro è come Hiroo Onoda rimasto per 29 anni su un’isola delle Filippine per “combattere” una guerra finita e, in questo caso, un conflitto iniziato, diretto e interpretato da Pietro contro Castellitto. Entra a far parte di diritto nella lista Schindleriana di opere che devono piacerti per forza, di film che se non ti convincono del tutto è perché tu non hai capito, quando in realtà non c’è nulla da capire perché Castellitto “scivola sulla superficie delle cose” e ci rimane.