È uscito un nuovo singolo de I Cani, è realizzato in collaborazione con I Baustelle e io non l’ho ancora ascoltato. Non l’ho ancora ascoltato, non soltanto perché la notizia si è sparsa tipo due ore fa - e io, a dirla tutta, sarei in ferie - ma anche perché, a quanto pare, il nuovo disco è disponibile soltanto in vinile. È uscito un nuovo singolo de I Cani e, ad ogni modo, io mi ritrovo adesso a cercare di spiegare ai miei colleghi più giovani come, quanto e perché, Niccolò Contessa sia stato così importante per la discreta parte di una generazione. O, quantomeno, per me.
In estrema sintesi: Il sorprendente album d'esordio de I Cani è probabilmente il disco che ho ascoltato di più nella mia vita. L’ho ascoltato tantissimo quando è uscito, perché attuale e straordinariamente capace di descrivere il presente, e l’ho ascoltato tantissimo anche dopo, crogiolandomi in quel tipo di malinconia rassicurante che solo gli album e i film visti e rivisti sanno trasmettere. Il sorprendente album d'esordio de I Cani, quando è uscito, parlava semplicemente di noi, di chi, in quel periodo, aveva più o meno l’età di Contessa e viveva, o sognava di vivere, in una grande città, come Milano, o Roma, o Bologna, o Torino. Contessa, come non accadeva da… boh, era stato in grado di descrivere un contesto che non trovava più corrispondenza nei testi mainstream. In quelle canzoni si parlava di hipster, di Polaroid, di American Apparel, di David Foster Wallace, di locali che effettivamente frequentavamo o avremmo voluto frequentare, di tutto ciò che delineava i tratti di una scena che ha aggregato molte persone e che per molte si è trasformata nell’humus in cui dare vita a un percorso lavorativo (tipo chi vi scrive).
Tanto per capirsi, la prima canzone italiana più ascoltata dell’anno precedente (il 2010 - e parliamo, ovviamente, di un mondo pre Spotify e pre streaming flat) è “Tutto l’amore che ho” di Jovanotti. Ora, per carità, vero è che quando ad essere affrontati sono i temi universali ognuno riesce poi a ritrovare sé stesso all’interno di canzoni, libri, film o qualsiasi cosa possa essere ricondotta al termine opera d’arte (sì, anche le canzoni di Jovanotti). Ma se l’opera d’arte parla proprio di te, della gente come te, di quella di cui vorresti far parte, dei tuoi interessi, e parla anche dei tuoi stessi problemi, delle tue difficoltà, beh, quella cosa lì diventa infinitamente più potente, diventa un diario collettivo. I pariolini di diciott’anni erano i ragazzini di cui parlava la cronaca in quel periodo, erano i futuri protagonisti di Baby (non il maialino coraggioso, ma la serie di Netflix sulle baby squillo). I pariolini di diciott’anni erano ciò che, dopo aver scavallato i 25 anni, forse avrei voluto essere di nuovo, ma soprattutto erano la versione capitolina della borghesia in cui mi ero ritrovato a crescere nella mia città d’origine.
Le velleità (che aiutano a dormire, quando i soldi sono troppi o troppo pochi, e non sei davvero ricco né povero davvero, nel posto letto che non paghi per intero) erano le stesse che permettevano a me e a molti altri della mia generazione, di sperare di riuscire a trovare un posto, nuotando come salmoni contro corrente, in un mondo del lavoro che stava crollando - in generale, figurarsi l’editoria - dopo l’avvento di internet, le Torri Gemelle e la crisi del 2008. Quell’inizio di dipendenza da social, appena accennato in Door Selection (“Toglierei l'amicizia al settanta percento di quelli su Facebook / Ma in fondo non voglio vedere ridotto il mio impero”), e la noia che, per contro, ogni serata in ogni discoteca era ormai inevitabilmente destinata a restituire (“Del resto qui la fila non cammina da un pezzo / Ma non ho alcuna fretta: conosco benissimo cosa mi aspetta”) avevano le stesse caratteristiche di ciò che il presente restituiva a me e a tutti i miei conoscenti. I Cani, insomma, erano generazionali. Tanto generazionali da non essere capiti e apprezzati fino in fondo, da chi aveva all’epoca qualche anno in più di noi. Una contemporaneità che, tra l’altro, è continuata anche con il secondo album, pur se con risvolti meno coinvolgenti, prima di sparire quasi del tutto, nel terzo. Aurora, il secondo disco di Contessa, a mio modestissimo parere risente inevitabilmente delle vicende che hanno coinvolto chi l’ha scritto nei due anni precedenti in termini di successo e di una vita che non era più così aderente a quella dei suoi coetanei.
Un po’ meno “di tutti”, insomma, un po’ più del suo autore, ma comunque in grado di lasciare almeno una traccia, nella colonna sonora della vita di molti millennial - che orma sa di vecchio come Generazione X sapeva di vecchio, passata la coolness di Ambra Angiolini. Mi riferisco a Lexotan, brano tra gli ultimi di quell’album, che oltre a esplicitare un malessere del suo autore; oltre a mettere per la prima volta al centro di una canzone ormai pop, un tema come quello dell’ansia, divenuto poi tratto caratteristico di una generazione; oltre a parlare del Rolling Stone e di Vice (di nuovo, quella scena); oltre a fare tutto questo, insomma, puttana miseria, realizzo soltanto ora, parla anche di psicanalisi junghiana. E se state leggendo questo pezzo, all’interno di una rubrica che - non a caso - si chiama Fight Club, capisco ora, è forse perché in realtà Niccolò Contessa sono io.