“Domanda da un milione: ti piacciono I Cani?”
“Nella media, perché?”
“Sono tornati sulla scena dopo anni con un vinile, ti andrebbe di scriverne?”
Questo articolo non può che iniziare con questo scambio di battute surreali che hanno visto protagonisti me, nelle parti di colui che viene interpellato riguardo I cani, e uno dei redattori di MOW, nelle parti di colui che domanda a riguardo e si sente rispondere con un laconico “nella media”. Colpa degli anni, e dell’abbassamento della vista, credo, il medesimo abbassamento che ha fatto sì che, iniziati a portare gli occhiali da lettura intorno ai quarantanove anni, comunque forse troppo tardi, ha visto la mia capacità di leggere un messaggio WhatsApp in assenza dei medesimi praticamente pari a zero, addio maiuscole. Così, mentre mi aspettavo la proposta di andare a fare un gonzo reportage in una qualche fiera di cinofili, lì a guardare barboncini saltare ostacoli o levrieri afghani correre con una certa goffa eleganza, ecco che vengo a sapere, così, di colpo, che I cani sono tornati. Sì, I cani con la maiuscola, il progetto musicale di Niccolò Contessa. Lui che è stato e ancora è la pietra su cui Nostro Signore dell’indie ha edificato il pop degli Anni Dieci, a partire da quelle prime sporadiche apparizioni, siamo intorno al 2010, appunto, con un sacchetto di carta a coprirgli il volto, una sorta di anonimato presto mandato a put*ane, la sua I pariolini di 18 anni a diventare suo malgrado una hit, di quelle che partono davvero dal basso, col passaparola, e presto riescono nel miracolo non solo di sfondare la barriera del suono, ma a fare addirittura scuola. Lui che, divenuto appunto caposcuola, ormai sette anni fa, anno del medesimo Signore 2016, dopo aver pubblicato il suo terzo album, Aurora, ha deciso che basta, era arrivato il momento di uscire di scena. O meglio, di rimettersi metaforicamente quel sacchetto in testa, scomparire come fanno i bambini da piccoli, che pensano che mettersi dietro una tenda, ben visibili in realtà a tutti, equivalga all’aver trovato il nascondiglio perfetto. Infatti eccolo da una parte padre putativo di tutta una serie di progetti coi quali, direttamente, non ha avuto a che fare, dai TheGiornalisti di Tommaso Paradiso a Dente, qualcuno si ricorda di lui, altro padre putativo in pectore di una scena che però se lo è presto dimenticato, passando per tutti gli altri, da Calcutta al duo Carl Brave & Franco 126, da Frah Quintale a Coma_Cose, da Gazzelle fino ai blockbuste5r Cosmo o Colapesce e Dimartino. Dall’altra eccolo mettersi in prima persona, sempre il sacchetto di carta in testa, a collaborare con altri, scrivendo insieme a loro o producendoli, contribuendo comunque alla loro carriera, in termini di hype, certo, ma anche di musica e canzoni, così vai di Coez, vai di Tutti Fenomeni, vai di Giovanni Truppi, con cui ha scritto tra le altre Tuo padre, mia madre e Lucia, presentata al Festival di Sanremo 2022, Laila Al Habash, in mezzo, en passant, anche Max Pezzali. E vai soprattutto con un cambio di mentalità, quella musica che per lungo tempo era rimasta nelle camerette, nelle cucine, citazione per pochi adepti, di colpo trova un mercato, passa nelle radio, diventa canone e matrice rincorsa anche dal mainstream, che di colpo si mette a imitarla.
L’indie, presto divenuto itPop, non per bocca o mani de I Cani, di colpo assurge a musica generazionale, e visto che quella generazione è quella che più è attenzionata dal mercato, in discografia ora funziona così, ecco che di colpo il modello Contessa diventa davvero il più imitato dagli italiani. Questo esistenzialismo intimo legato a una musicalità che si rifà al contempo al pop anni Ottanta e a un certo cantautorale sempre di quel periodo, penso soprattutto a Luca Carboni, ma anche a Flavio Giurato, a tratti anche a Enzo Carella, di colpo viene sdoganato, diventa alla moda, per citare lo stesso Contessa, Glamour. Lui, però, è uscito di scena, passato a vita privata mentre tutti lo cercano, sorta di Salinger senza buste della spesa, o Pynchon senza dentoni. Nel mentre, infatti, pubblica giusto qualche colonna sonora, come quella di Enea di Castellitto jr, Pietro, e mette in atto qualche giochetto situazionista, i singoli estemporanei Alla fine del sogno, nel 2020, apparso in versione demo su SoundCloud, intriso di esistenzialismo e molto meno electro di quanto l’utilizzo di synth, Enzo Savastano direbbe Synthi, lascerebbe pensare, Un altro Dio, una specie di trip-hop su cui il nostro fondamentalmente parla, portando all’estremo uno stile ormai canonizzato coi suoi lavori sulla lunga distanza, e Fiore, forse la sua canzone post-ritorno più vicina agli esordi, Un altro Dio e Fiore rispettivamente usciti nel 2021 e 2022, sempre pubblicati a sorpresa, come di nascosto, oltre l’incursione a Una pezza di Lundini, con un inedito che tale non si può definire. Niente d’altro. Fino a stamattina, quando esce la notizia che nei negozi di dischi, il fatto che esistano ancora è già di suo uno scoop, è arrivato un vinile dalla copertina nera, come il Black Album di Prince, una sorta di uscita fuori porta del genietto di Minneapolis girato per anni in forma di bootleg e solo in un secondo momento pubblicato ufficialmente, o anche quello dei Metallica, tanto per non farci mancare niente, che a ben guardare mostra i nomi proprio de I Cani e dei Baustelle. Uno split single, quindi, che non trova traccia sulle app di streaming, e anche questa potrebbe essere una notizia, non si trattasse appunto di Niccolò Contessa, in buona compagnia di Francesco Bianconi. Due canzoni, una per lato. O meglio quattro canzoni, due per lato, ma le due canzoni per lato sono “fuse” insieme. Due i titoli, divisi dal trattino, “Nabuccodonosor- Essere vivo” da una parte, “Canzone d’autore-L’ultimo animale” nell’altro. Una sorta di incontro-scontro, dove per scontro si dovrebbe forse parlare piuttosto che atto sessuale, in un letto a baldacchino che ha come soffitto una gigantografia di Franco Battiato, e con Contessa che gioca a fare Bianconi e Bianconi che gioca a fare Contessa, Lynch potrebbe farci un cortometraggio, non avessero già fatto tutto loro (nel cortometraggio, è ovvio, Contessa indosserebbe di nuovo il sacchetto di carta in testa, che ve lo dico a fare). Un disco sentito di merda, quindi senza neanche la possibilità di poter dire neanche chi canta cosa, ma a occhio questo è, a orecchio un po’ meno. Resta comunque un lavoro senza precedenti, e come avrebbe mai potuto essere altrimenti, dove le due realtà non duettano, mai, semmai si fondono, si danno il cambio, indossano la faccia e il corpo l’uno dell’altro, Bianconi a fare l’electropop colto di Contessa, Contessa a simulare lo stile dei Baustelle, poi insieme a tirare le somme, somme che ovviamente dimostrano come i conti non possano e non debbano mai portare, la musica è sì faccenda di numeri, ma anche di emozioni, e di turbamenti.
Tutto questo, ovviamente, lo posso dire con la medesima attendibilità con cui un tempo, parlo degli anni Ottanta, riuscivo a capire i testi delle canzoni di artisti scozzesi dall’ascolto di album registrati alla cazzo su audiocassette Basf con stereo neanche troppo affidabili, perché in un ritorno al passato che però nulla ha di entusiasmante o nostalgico, quanto piuttosto di necessario e anche vagamente avvilente, per poterlo ascoltare avrei infatti voluto chiamare un mio amico nelle Marche, l’unico che io conosca che ha ancora un negozio di dischi vicino casa, Black Marmelade Records a Pesaro, per altro uno dei dieci negozi che credo ne abbia copie (gli altri sono Rock 86 a Catania, Serendeepity e Volume a Milano, Semm a Bologna, Tosi Dischi a Reggio Emilia, Casa del Disco a Faenza, Backdoor a Torino e i due locali di Radiation Records a Roma), la tiratura limitata e numerata sembra essere di sole mille copie, venti euri a copia, e chiedergli, giuro, di farmi ascoltare l’EP, forse dovrei dire singolo, chissà, al telefono, provando a lavorare di fantasia. Ma alla fine ho deciso di lavorare direttamente di fantasia, come credo abbiano fatto i miei colleghi in giro per il web, tutti a riportare gli stessi concetti, credo, io giusto con un linguaggio un po’ più letterario degli altri. Credo che la genialità dell’operazione stia anche in questo, nel non offrirci modo di parlarne se non in questo modo, ovviamente nella speranza che poi, prima o poi, sia possibile acquistarlo su Amazon, o che magari finisca per essere ascoltabile in altra maniera questo passa il convento. Per il resto ci sono i lavori di studio, il sorprendente disco d’esordio de I Cani, anno 2011, Glamour, anno 2013, il già citato Aurora, anno 2016, tutti della prodigiosa 42 Records. Dio preservi sempre la discografia indipendente, dio preservi I Cani, volendo anche i cani.