Con Frida Kahlo, il dato biografico proprio di un’esistenza drammatica, infranta, si è fatto plusvalore al fixing della pittura e della leggenda. Proprio in lei, Frida, celebrata e così innalzata sugli altari delle aste milionarie. Una sua tela del 1940, lo stesso anno, ed era agosto, dell’assassinio di Lev Trotsky - “Leon” lo chiamavano invece in Messico, luogo d’esilio, per mano, armata di piccozza, di un agente stalinista dell’NKVD, Ramón Mercader, casualità della storia, prozio di Christian De Sica – opera autobiografica che la mostra distesa sul “suo” letto a baldacchino segnato da un cielo di specchi, intitolata “El sueño (La cama)”, è stata battuta all’asta da Sotheby's a New York per 54,7 milioni di dollari. La stimata era di 40 milioni di dollari, “cifra che, se verrà raggiunta – assicura un dispaccio d’agenzia AdnKronos, è destinata a stecchire “due record storici: quello per il prezzo più alto mai raggiunto da un quadro della Kahlo e quello per qualsiasi artista donna nella storia del mercato dell’arte”. E la cifra è stata raggiunta e superata.
L’opera, cristologicamente, sia pure al femminile, auto-deposizione, restituisce Frida distesa a galleggiare nello spazio, il corpo avvolto da una coperta gialla ricamata di rampicanti che la raggiunge fin sul viso; a presidiare l'immagine dall’alto, altrettanto disteso, appare uno scheletro (una “calaveras”, figura propria d’ogni iconografia messicana, come già in José Guadalupe Posada) a presidiare teatralmente l’immagine, il cui teschio è ricoperto di candelotti di dinamite.
“El sueño” è tra i rari “capolavori” di Frida Kahlo non conservati in musei o collezioni messicane. Dipinto, appunto, a ridosso della morte di Trotsky, già suo ex amante, e il divorzio dal pittore muralista Diego Rivera, compagno, marito, “padre” ciclopico che ne sovrastava il quotidiano “edipicamente”, i sensi, la libido. Le note destinate a contestualizzare, ancora una volta in senso autobiografico l’opera, offerte da Sotheby's ai potenziali acquirenti, raccontano che “Frida dormisse davvero con un scheletro di cartapesta sopra il baldacchino del suo letto”. Il picco attuale per una tela di Kahlo è al momento di 34,9 milioni di dollari, raggiunto nel 2021 da “Diego y yo”, anche in quel caso da Sotheby's New York.
Il primato per la vendita più alta di un'artista donna spettava finora invece a “Jimson Weed/White Flower No. 1” di Georgia O'Keeffe, 1887-1886, pittrice statunitense, ogni suo quadro è una cosmogonia ravvicinata del sensibile naturale, fiori, campanule, ninfee, il creato floreale…, battuta nel 2014 per 44,4 milioni di dollari. Kay Sage, Remedios Varo e Leonora Carrington, tra le altre artiste donne non meno ricercate sul mercato.
Frida, è ormai anche poster, monile, orecchino, amuleto, luce e ombra dolente di sé stessa, e così brilla da decenni sull’altare maggiore della grazia e del glamour. Volto destinato ad arredare visivamente, e anche araldicamente, molto sentire femminile e femminista. Perfino dalle copertine di “Vogue” o di “Vanity Fair”. E ancora su cuscini, diari, “shopper bag” di tela ecologica acquistata tra musei e mercatini domenicali; lì stampigliata: il suo sguardo a fissare il mondo dalla sua trincea nella dopostoria armata di fiori.
Proprio lei, Frida, che soprattutto vive e brilla nel dato drammatico di una biografia, tragica e frastagliata, totemica, forse assai meno nel palmarès della grande storia dell’arte, sicuramente così almeno agli occhi della critica più severa e puntuta. Ma tant’è. Immaginarla pari del re e delle regine accanto ai maestri della pittura, si consenta la riflessione qualitativa, è probabilmente un eccesso di fiducia. Frida appartiene piuttosto alla borsa e al fixing delle leggende... Attraverso il suo volto innalzava fiori carnivori e poi, su tutto, un monociglio iconico, cinematografico, come divinità grottesca e insieme desiderabile del Messico più infiammato, crocifisso ai propri colori acidamente accesi, pigmento di luce e di morte. Fu Frida Kahlo sempre lì a contemplare e ritrarre sé stessa, per raggiungere il pozzo artesiano delle cose, forse perfino la botola del dolore che si fa icona, anzi, “veronica”, vera-immagine, reliquia del proprio corpo sfregiato dal destino.
Che Madonna, Lady Gaga e perfino le ragazze più anonime, ai lobi gli orecchini a replicarne il volto, ritenendola una sorta di Picasso al femminile, vagina in fronte, amuleto della dolente grazia aggressiva femminile, ne assolve comunque la modesta tecnica pittorica. Resta la sua vita a custodire un proprio vangelo personale di sangue e mestruo, una cristologia femminile, la spina dorsale spezzata, metafora di una corsa e un cammino interrotti... Frida e la sua colonna vertebrale offesa, ferita, e così mostrata sulla tela come tempio puntellato dai chiodi di una impossibile resurrezione medica, croce verticale, supplizio, anchilosi perenne, il letto come luogo di tortura, come orizzonte, altare...
D’istinto, ritrovandone ancora il volto, vengono in mente le parole di Vladimir Majakovskij, altrettanto caro ai coniugi Rivera, costui che così diceva: “Aiuto, sono crocifisso al foglio con i chiodi delle parole”.
I chiodi, così sia, i chiodi di Frida, e poi lei davanti all’abbraccio paterno del “suo” Diego, padre-amante adottivo, corpo ingombrante, moloch della pittura muralistica di un Messico pagano in rivolta, così quando l’arte per dovere militante pretendeva di innalzarsi sui muri e le palizzate dell’agit-prop, le muraglie del popolo in lotta, così da mostrare sé stessa alle masse, indicando loro il cammino per l’ennesima rivoluzione, sotto l’apologetica luce di Marx e Lenin, e forse anche di Trotskij. Infine di Stalin; se è vero che dopo un’infatuazione trotskista Frida e Diego si inginocchieranno davanti al Martello di Dio sovietico, ma questa è già un’altra storia.
L’album fotografico e pittorico di famiglia la pone accanto al ciclope Rivera, sebbene lei, Frida, esattamente Frida, manterrà comunque, ora e sempre, una cifra intimistica, trasfigurando il proprio volto, il proprio mezzobusto in un San Sebastiano al femminile. Frida martire trafitta dalle frecce del proprio mestruo mancato, Frida con un busto a stringerle il ventre come un cilicio, anima di gesso e metallo, un busto, un corpetto da farsi esso stesso opera, come fosse una tela da decorare, magari con la falce e martello della luminosa e insieme oscura fede comunista, o anche con i chiodi di un destino che la costringeva a vedere il mondo dalla prospettiva orizzontale di un letto.
A proposito di fede comunista, Frida e Diego blandiranno Trotskij, comporranno infine insieme a lui e ad André Breton i successivi e ulteriori comandamenti del Surrealismo, dove sogno e rivoluzione brillano nel medesimo domicilio ideologico. Ma forse c’è anche qualcosa di più, scabrosi dettagli delle singole autobiografie: se andiamo infatti a cercare negli album fotografici del fondatore dell’Armata Rossa, profeta ormai sconfitto e disarmato in esilio a Coyoacán, la sua casa-fortilizio, tra i cactus e l’agave, sobborghi di Città del Messico, ci sarà modo di trovare uno scatto domenicale dove Frida e Diego figurano, impettiti, tra i cactus, accanto al vecchio Leone e alla moglie Natalia, peccato che, a guardar bene, il volto di lei, proprio il volto di Frida, appaia sfigurato, violato da una punta acuminata di lapis, esatto, qualcuno si è accanito con astio puntuto proprio sul volto della nostra eroina pittrice. Intendiamoci, Trotskij, lo ha raccontato il suo segretario Jean van Heijenoort, era un invasato di sesso, perfino nei momenti in cui, braccato dai sicari di Stalin, gli stessi che alla fine riusciranno a conficcargli una piccozza nel cervello, avrebbe dovuto pensare alla sua IV Internzionale, metti, anche in quei momenti, tuttavia Lev Davidovic, mai veniva abbandonato dal pensiero della grazia femminile, così anche la vulva di Frida verrà sfiorata dal teorico della rivoluzione permanente... Sarà proprio Natalia, la compagna d’esilio del rivoluzionario, a sgraffiare, a sfigurare con la punta dell’astio di un lapis e del risentimento il volto della dirimpettaia, dell’ospite Frida, la “scimmia” adulatrice.
Il monociglio, gli abiti etnici, omaggio alla grande anima tessile messicana, i fiori conficcati nella crocchia, come aureola strappata alla giungla dello Yucatàn, un volto in sé già perfetto per farsi icona, santino, orecchino, màndala, lanterna magica di una femminilità irripetibile, mutilata, perturbante, la nudità sotto la porpora, l’eros della donna “sacra scimmia” incarnata nell’umano. Non c’è femminista che non pensi a Frida come santa laica guerriera privilegiata, che non la immagini in armi nella sua trincea ora da Nostra Signora di Guadalupe ora da Grimilde, sì, nei loro occhi c’è Frida che interroga lo specchio delle sue brame...
Cosa supplicava allo specchio del destino la nostra, la loro Frida? Forse, innanzitutto un miracolo che facesse volarle via i chiodi di San Sebastiano al femminile, la vulva anch’essa dolente sotto il minuscolo panneggio che ne ricopre i fianchi e il bacino, i chiodi che avrebbero dovuto fissare alla terra messicana la sua colonna vertebrale, e ancora che il letto, il letto-altare-offertorio di Frida potesse trasformarsi in un astro volante, se non proprio tappeto, un vettore che la portasse nell’altrove della diagnosi clinica, del comunismo, del suo Diego, padre-amante-figlio-marito-mostro; si narra che per partecipare a una vernice, come fosse stata Cristo immobile nella sua teca quaresimale, Frida ebbe modo di farsi trasportare lontano da casa con tutto il suo letto di dolore, con lei, Frida, lì compiaciuta, come fosse già composta nella primavera della sua camera mortuaria, pronta per il sepolcro, per un obitorio multicolore, se è vero che nella cultura messicana perfino i teschi hanno vita nel quotidiano che attende la morte, e intanto battono le nacchere dei propri denti, proprio loro, le “calaveras”, come mostra il nume iconico della pittura che accompagna la rivoluzione di un Emiliano Zapata e di un Pancho Villa, Josè Guadalupe Posada, già citato.
Frida Ecce Mulier, lì a mostrare il proprio martirio, e quanta magnificenza in quel monociglio, nel trucco, nelle rose ad adornarne i capelli.
Oppure a ritrarre il proprio medico curante, trasfigurandone la fototessera in omaggio in camice bianco da corsia di nosocomio. Fuori, i muri di un Messico come tavola sinottica di ortopedia, ulna, radio, acetabolo, astragalo, vertebra, e qui fa ritorno a noi nuovamente il poeta rivoluzionario che immaginava un “flauto di vertebre”. Frida, fiore carnivoro da glamour ormai hipster. E forse anche per questo molti la amano.