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Tornano i sospetti sullo zio di Emanuela Orlandi, ma c’è anche un altro nome… Intervista al giornalista Pino Nicotri, l’unico che ha smontato le piste sul Vaticano, la banda della Magliana e i servizi segreti a Londra

  • di Riccardo Canaletti Riccardo Canaletti

  • Foto di: Ansa

21 novembre 2025

Tornano i sospetti sullo zio di Emanuela Orlandi, ma c’è anche un altro nome… Intervista al giornalista Pino Nicotri, l’unico che ha smontato le piste sul Vaticano, la banda della Magliana e i servizi segreti a Londra
Dopo il documento ritrovato da Giletti allo Stato delle cose, a cui mancherebbero quattro pagine sulla famiglia Orlandi, Mario Meneguzzi, abbiamo intervistato il giornalista Pino Nicotri, che in 25 anni di lavoro ha smontato le piste sulla pedofilia in Vaticano, la Banda della Magliana e i servizi segreti a Londra e si fa le domande (giuste) su zio Meneguzzi e un altro sospettato…

Foto di: Ansa

di Riccardo Canaletti Riccardo Canaletti

42 anni di spettacolo intorno a Emanuela Orlandi, ma per cosa? Tutte le piste più assurde sono state rilanciate dai giornali: la pedofilia in Vaticano, i servizi segreti che l’avrebbero portata in un manicomio a Londra, la Banda della Magliana, che prima l’avrebbe rapita per ricattare il Papa e poi l’avrebbe invece fatta sparire per fare un piacere alla Santa Romana Chiesa (?). Poi le ossa nella tomba di De Pedis, nella Nunziatura di via Po, e adesso forse sotto la Casa del Jazz, l’edificio che apparteneva al tesoriere dell’organizzazione che entra in questa storia, guarda caso, poco prima dell’uscita al cinema del film Romanzo criminale. Ma c’è una pista, l’unica che si stava portando avanti prima dello scoppio del caso mediatico, che è sempre stata liquidata, anche dalla famiglia Orlandi, e di cui ora si torna finalmente a parlare, anche grazie allo scoop di Massimo Giletti che, durante l’ultima puntata de Lo Stato delle Cose, ha rivelato l’esistenza di un documento “riservatissimo”, ora in mano alla Procura di Roma, a cui mancherebbero quattro pagine riguardanti la famiglia Orlandi e lo zio Mario Meneguzzi, lo stesso che aveva fatto delle avance alla sorella maggiore di Emanuela, Natalina Orlandi. Ne abbiamo parlato con Pino Nicotri, un giornalista che su questo caso lavora da 25 anni, che ha pubblicato quattro libri-inchiesta sul “rapimento che non c’è” della quindicenne scomparsa il 22 giugno 1983 (e un libro sulla vera storia della Banda della Magliana) e in più di un’occasione, anche con la Commissione d’inchiesta parlamentare, ha rivelato dei documenti attendibili, tra i tanti creati a tavolino, sul caso Orlandi.  

Pino Nicotri con il suo libro "Cronaca criminale: la storia definitiva della Banda della Magliana"
Pino Nicotri con il suo libro "Cronaca criminale: la storia definitiva della Banda della Magliana"

La rivelazione fatta a Lo Stato delle Cose rimette al centro la figura dello zio di Emanuela, Mario Meneguzzi, che ai tempi venne anche pedinato da chi stava indagando. Nel 2023 il suo nome era uscito fuori per le avance fatte alla sorella di Emanuela, Natalina, ma la cosa venne decisamente ridimensionata da Natalina stessa e da suo fratello. Che impatto ha quanto mostrato da Giletti a questo punto della storia?

Francamente? Credo che l’impatto sarà minimo, almeno per quanto riguarda la commissione parlamentare, che mi sembra vada un po' a caccia di farfalle. Si fa guidare chiaramente da Pietro Orlandi, il quale tra cose inesatte, cose sbagliate, evidentemente esclude alcune piste ragionevoli.

Cosa te lo fa pensare?

Da una parte dice che bisogna indagare a trecentosessanta gradi, che nessuno è al di sopra di ogni sospetto, compreso Papa Giovanni Paolo II. Però quando si tratta di indagare l’ambiente amical-parentale, ecco che si irrigidisce e inizia a dire che è assurdo o persino inutile. 

Facciamo un passo indietro, come nasce la pista del rapimento, quella più diffusa attualmente?

Natalina Orlandi fa la denuncia di scomparsa alle 7:30 del 23 giugno. Nel pomeriggio dello stesso giorno, zio Mario Meneguzzi fa il giro di tre giornali, Il Tempo, Il Messaggero e Paese Sera, spingendo per pubblicare un annuncio che uscirà il 24 su Il Tempo e il 25 sugli altri due. In questi tre appelli parla del fatto che al momento della sparizione Emanuela aveva pantaloni jeans con bretelle. Primo punto: come fa a sapere che aveva le bretelle visto che Natalina Orlandi non le nomina nella denuncia fatta in mattinata? Punto secondo: il 24 lo zio va all’Ansa e fa fare un comunicato nel quale non parla più di bretelle, e questo già crea confusione, ma dice, mentre i giornali scrivevano che era uscita dalla scuola di musica che si affaccia sul corso del Rinascimento, che Emanuela era uscita dal conservatorio di Santa Cecilia, a due chilometri dalla scuola di musica Ludovico Tommaso Da Victoria, frequentata da Emanuela e da dove era in realtà uscita. Altro elemento di “disturbo” che ha alimentato il caos. Chi avesse visto Emanuela non dalle parti del Santa Cecilia avrebbe pensato, seguendo il comunicato Ansa, che non avrebbe potuto essere davvero lei. Non solo, nel lancio dell'Ansa lo zio dice che i genitori, il padre, i colleghi del padre temevano un rapimento. In Vaticano c'era il timore di possibili rapimenti. La tesi nasce così, ma c’è un particolare.

Quale?

Se fosse vero che c’era una specie di paura diffusa del rapimento, come mai Emanuela andava e tornava sia dal liceo scientifico che dalla scuola di musica da sola? E così tutti gli altri ragazzini? Inoltre, quel giorno, quel maledetto giorno, gli amici di Emanuela erano d’accordo con lei che l’avrebbero aspettata dalle parti della Tomba di Adriano, nota anche come Castel Sant’Angelo. E ci sarebbero andati da soli, senza nessun adulto. Un altro particolare gravissimo che purtroppo viene dimenticato è questo, è nel verbale dalla sorella Maria Cristina, la più giovane: Pietro Orlandi quel giorno si rifiuta di accompagnare a scuola in motocicletta Emanuela, che gli chiede di portarla anche perché c’era uno sciopero dei mezzi pubblici. Lui si rifiuta di accompagnarla sostenendo di avere un altro impegno, anche se non si è mai saputo quale. I magistrati, dopo aver sentito Maria Cristina, lo chiamano e gli contestano quanto raccontato dalla sorella e lui dice che era convinto di doverla andare a prendere la sera, cosa che comunque non è avvenuta. Allora, se davvero c’era una sorta di allarme rapimenti, come si spiega che Pietro Orlandi non abbia voluto né accompagnare sua sorella alla scuola di musica né andare a riprenderla?

Quindi la pista del rapimento non regge.

Minimamente, è fuorviante e si basa sul nulla. Per giunta la decisione, a questo proposito, di pubblicare il numero di telefono di casa Orlandi ha aperto la porta ai peggiori mitomani.

C’è un altro caso, avvenuto l’anno dopo, nel 1984, di cui ti aveva parlato anche il primo magistrato a indagare sul caso Orlandi, Margherita Gerunda, in cui la teoria del rapimento si rivelò in realtà un depistaggio.

Sì, il caso di Stefania Bini. Lo zio Mario Squillaro, che evidentemente si è ispirato alla vicenda di Emanuela Orlandi e del presunto collegamento con il terrorista turco Ali Ağca, dirà ai genitori di Stefania che la figlia era stata rapita dai turchi e che questi avrebbero chiesto un riscatto. In realtà era stato proprio lo zio a ucciderla.

Pietro e Natalina Orlandi
Pietro e Natalina Orlandi

A proposito delle tue discussioni con Gerunda e poi con Sica, che prese in carico le indagini, fin dall’inizio la pista più promettente era un’altra, l’unica di cui ancora si parla troppo poco.

Esatto, Margherita Gerunda voleva indagare l’ambiente delle amicizie e del parentado. Anche perché quando sparisce un minorenne di solito i colpevoli non sono degli estranei. È gente che la vittima conosce e di cui magari si fida. Ma Gerunda venne sostituita dopo solo un mese da Sica, perché lei aveva chiesto il silenzio stampa sui comunicati del Fronte Turkesh, in cui il gruppo sosteneva di avere Emanuela, comunicati in realtà fabbricati a Berlino Est dal X dipartimento della Stasi comandato da Günter Bohnsack. Invece i comunicati sono stati divulgati e da lì si è aperto il rubinetto del sensazionalismo: l’attentato al Papa, il collegamento con Ali Ağca e così via.

E la palla passa a Sica.

Sica andava di persona in Vaticano a parlare con la Segreteria di Stato, anche se avrebbe dovuto fare delle rogatorie internazionali. Sica già a metà agosto del 1983 ha saputo dall’ex confessore degli Orlandi, Don Serna Alzate, che lo zio Meneguzzi aveva avuto per Natalina delle attenzioni, cito, “oscene”. Allora Sica incarica un capitano dei Carabinieri, Mauro Obinu, di vederci chiaro. Obinu parla con l’allora fidanzato di Natalina Orlandi, Mario Andrea Ferraris, e viene a sapere che lo zio si è incontrato con la nipote Natalina e le aveva detto che era innamorato e lei doveva sdebitarsi del fatto che lui l’avesse fatta assumere alla camera.

Un impiego su cui si è approfondito poco.

Alla Camera Natalina era nella segreteria del capo dell’Ufficio legale della Camera, l’avvocato Gianluigi Marrone, il quale contemporaneamente, su autorizzazione di Nilde Iotti, Presidente della Camera, era anche giudice unico del Vaticano, particolare che è sempre stato tenuto nascosto, anche perché Marrone era ai tempi molto criticato per la sua condotta. Sica evidentemente andava direttamente in Vaticano per saltare le rogatorie, perché il contenuto delle rogatorie sarebbe passato inevitabilmente da Gianluigi Marrone, che avrebbe potuto anche fare delle confidenze a Natalina, visto che era nella sua segreteria.

Perché Sica temeva le possibili confidenze di Marrone a Natalina?

Io ho pubblicato il file sonoro della mia telefonata con l’avvocato degli Orlandi, Gennaro Egidio, ai tempi malato di cancro (morì due o tre anni dopo), in cui gli dico: “Avvocato, il magistrato Martella mi ha detto che il magistrato Sica ha indagato poco e niente, perché era convinto che si trattasse di una storia fra Emanuela e suo zio Meneguzzi”. E a quel punto Egidio, invece di darmi del pazzo o di negare chiaramente, rispose: “Ah già, lo sa?”, come a suggerire che fosse una voce che era arrivata anche a lui. Dopodiché, lo zio Mario Meneguzzi è sicuramente innocente, ma se bisogna davvero indagare a trecentosessanta gradi, allora in questa storia c’è evidentemente un buco. O statisticamente è più probabile che il Papa sia il colpevole? Per non parlare della fantasiosa e assurda pista sulla Banda della Magliana.

Enrico De Pedis, boss della Banda della Magliana
Enrico "Renatino" De Pedis, presunto boss della Banda della Magliana

È una delle più rilanciate.

Ai tempi Enrico De Pedis aveva come avvocato Vilfredo Vitalone, fratello dell’ex magistrato e poi senatore Claudio Vitalone, un amico di Andreotti. Negli anni Novanta il leader della Democrazia Cristiana era accusato di essere coinvolto nell’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, ammazzato nel 1979, e Antonio Mancini, uno che stava in galera per omicidio e si spacciava come grande boss della Banda della Magliana (ma verrà smentito persino dalla compagna), si era convinto che avrebbe potuto evitare il carcere passando per “pentito” e puntando il dito contro Enrico “Renatino” De Pedis. Ho anche pubblicato le registrazioni di un dialogo in carcere di Mancini su questo. De Pedis, secondo questa ricostruzione, avrebbe fatto il piacere al suo avvocato, amico di Andreotti, di far sparire Pecorelli. La prova, secondo un super testimone del tempo, era la pistola, l’arma del delitto, che era stata passata a De Pedis. Peccato che “Renatino”, nel ’79, fosse rinchiuso in carcere e dunque le accuse si rivelarono fin da subito assurde. Ma l’obiettivo era di “collaborare con la giustizia” per uscire di prigione.

E una volta fatto il nome di De Pedis da un “pentito” della Banda della Magliana, ecco che si è passati al caso Orlandi. Lo stesso Mancini, in effetti, dirà nel 2006 a Chi l’ha visto? che la voce nella telefonata sul presunto rapimento di Emanuela Orlandi era quella di “Mario”, il “killer preferito di Enrico De Pedis”. Cosa che, come hai già spiegato in alcuni tuoi articoli, si rivelò falsa.

Certo. Ma il lato comico e atroce allo stesso tempo è che De Pedis è morto incensurato. Lui, quando è morto, non aveva nessuna condanna e non aveva nessun processo in corso, nessun carico pendente, come si usa dire. L’unica condanna ricevuta era per una rapina. Quindi definirlo capo della Banda della Magliana, un super boss, è pura e semplice diffamazione.

Nel 2005, comunque, con una telefonata anonima a Chi l’ha visto?, viene lanciata l’ipotesi che Emanuela Orlandi fosse sepolta proprio con De Pedis nella Basilica di Sant’Apollinare.  

Una telefonata anonima che però pare non sia arrivata al centralino di Chi l’ha visto dall’esterno della Rai. Quindi c'è anche un dubbio sulla vera origine di quella chiamata mandata in onda, guarda caso, nel settembre del 2005, poche settimane prima dell’arrivo nelle sale cinematografiche del film sulla Banda della Magliana tratto dal romanzo del giudice Giancarlo De Cataldo, Romanzo criminale.  

Qual è la verità, secondo te, sulla pista della tomba a Sant’Apollinare?

Teniamo presente che il magistrato Andrea De Gasperis, imbeccato sempre da Mancini, aveva già appurato che nella tomba di De Pedis c’era solo De Pedis con un’inchiesta durata dal ’95 al ’97.

La notizia fece scalpore anche perché si trattava, per tutti, di un boss criminale sepolto in una Basilicata e, quindi, come si credeva, tra alti prelati.

La moglie di De Pedis, la vedova Carla Di Giovanni, aveva fatto seppellire il marito al cimitero del Verano della tomba di famiglia dei Di Giovanni. Ma il marito era stato ammazzato, il 2 febbraio del 1990, probabilmente perché i suoi ex “amici” non gli avevano mai perdonato il tradimento, cioè il fatto di aver messo la testa a posto e di aver sposato Carla. Così, la vedova decise di far spostare la tomba del marito dal cimitero del Verano ai sotterranei di Sant’Apollinare, la basilica in cui si erano sposati, gestita al tempo dal rettore don Piero Vergari, che De Pedis aveva conosciuto in carcere e con cui era nata un’amicizia. Ecco il perché della tomba a Sant’Apollinare. Don Vergari aveva ripulito i sotterranei immaginando circa una dozzina di possibili spazi per la sepoltura di fedeli della parrocchia e De Pedis, che morì assassinato ma pulito secondo la magistratura, aveva spesso aiutato il parroco, anche a raccogliere offerte per vari eventi. In quella basilica non è sepolto neppure un semplice vescovo, figurati. I nomi che sono scritti per terra nel locale dove c’è l’altare, e cioè nella chiesa vera e propria, sono i nomi dei laureati in teologia, perché una volta il palazzo di Sant’Apollinare, del quale la chiesa di Sant’Apollinare era la cappella privata, era sede della facoltà di teologia del Vaticano. Quindi nessuno scalpore, De Pedis non è stato sepolto tra principi della Chiesa e santi come in molti sostengono.

E poi perché nascondere il corpo di Emanuela nella tomba di De Pedis?

Non solo, dov’è stato il corpo di Emanuela, e per alcuni anche di Mirella Gregori, dall’anno del rapimento alla morte di De Pedis sette anni dopo? In frigorifero? Ormai siamo al delirio demenziale.

La pista della tomba scoppiò per una telefonata anonima in tv. Ora Pietro Orlandi sostiene che un magistrato, anche lui anonimo, avrebbe suggerito a Pietro di cercare sotto òa Casa del Jazz, edificio che apparteneva a Enrico Nicoletti, cassiere della banda della Magliana.

Un’altra farsa. L’avvocatessa Laura Sgrò è intervenuta provando a metterci una toppa, ma ha peggiorato le cose. Davvero un magistrato, di cui non si fa il nome, avrebbe nominato migliaia di posti in cui cercare, tra cui la Casa del Jazz? Se fosse davvero così basterebbe fare il nome del magistrato e verificare. O dovremmo fidarci e basta?

Pino Nicotri, "Emanuela Orlandi: il rapimento che non c'è" (Baldini+Castoldi, 2022)
Pino Nicotri, "Emanuela Orlandi: il rapimento che non c'è" (Baldini+Castoldi, 2023)

Le false piste si sono persino mescolate nel tempo. Quella sulla Banda della Magliana, anche per via di alcune dichiarazioni come quelle del magistrato Priore, rilasciate al Tg2 nel 2009, si basava sull’idea che il Vaticano avesse ricevuto un prestito, forse di 15 o 20 miliardi di lire, per la campagna anticomunista di Papa Wojtyła in Polonia. Il Vaticano non restituì i soldi e la Banda della Magliana scelse di rapire una cittadina vaticana per ricattare il Papa. Era l’ipotesi anche di Ercole, il padre di Emanuela, e di Pietro Orlandi (“l’unico motivo per il quale Emanuela è stata rapita è perché era una cittadina vaticana”). Poi si è passati a sostenere la pista della pedofilia nel Vaticano, che nulla c’entrava con la Banda della Magliana. Alla fine queste due teorie sono state unite: la Banda della Magliana avrebbe rapito e fatto sparire Emanuela Orlandi per conto della Chiesa, probabilmente per insabbiare un caso di pedofilia o qualcosa di peggio.

Sì, Pietro Orlandi insiste a parlare di pedofili nel Vaticano. Punto primo: non c’è nessun caso noto da decenni di pedofilia nel Vaticano, dentro il Vaticano. C’è la pedofilia all’esterno del Vaticano, vari preti, sacerdoti nel mondo sono stati accusati, ma non nel Vaticano. Punto secondo: il reato di pedofilia si estingue a quattordici anni. Se una persona a 14 anni e un giorno vuole andare con Berlusconi o col Papa o col Cardinale o col barista sotto casa, è libera di farlo, nessuno può accusare il tizio che va a letto con lei di pedofilia perché se lei è consenziente la pedofilia dopo il quattordicesimo anno di età non esiste. Quindi la pista della pedofilia in Vaticano per una ragazza di quindici anni non regge, anche se affascina perché fa molto film o romanzo thriller.

Resta il tema del ricatto per i soldi prestati dalla Banda della Magliana al Vaticano.

Tu depositeresti in banca delle grosse cifre senza farti rilasciare una ricevuta? No, chiaramente. Allora, come si spiega che molti sostengono che la Banda della Magliana avesse depositato 88 miliardi di lire presso la banca del Vaticano, lo Ior, senza farsi fare uno straccio di ricevuta?

Ti faccio un’obiezione comune: magari erano soldi sporchi e non volevano lasciare traccia.  

Ma è un’idiozia, anche fossero stati soldi sporchi, il Vaticano li avrebbe rimessi in circolazione e sarebbero diventati puliti. Poi, a proposito di soldi sporchi, ci sono due intercettazioni telefoniche fatte dalla provincia sul telefono del vescovo Francesco Saverio Salerno. Questo Don Salerno, parlando al telefono con sua nipote e con un’avvocatessa che il brogliaccio di Polizia definisce sua amica intima, afferma: “Dice che lui portava dentro i giornali i quattrini sporchi”, dove quel “lui” è Pietro Orlandi. Perché non c’è un magistrato o una giornalista che abbia approfondito?

Infine la pista londinese.

La pista inglese nasce molti anni fa nella trasmissione Metropolis dove Pietro Orlandi e il giornalista Fabrizio Peronaci dovevano presentare il loro libro, Mia sorella Emanuela. A un certo punto telefona un presunto ex agente del Sismi, nome in codice Lupo, tale Luigi Gastrini, che sostiene di essere stato presente al rapimento di Emanuela Orlandi e svela che la ragazza era rinchiusa in un manicomio a Londra. Non solo, durante la chiamata Gastrini sostiene anche che il padre di Pietro Orlandi avesse coperto “un giro di quattrini della banca Antonveneta”, che nell’83 però ancora non esisteva. Così come non esistevano manicomi a Londra. Quindi che valore potevano avere queste dichiarazioni eccezionali? Pietro comunque partirà per Londra, con tanto di fanfara e troupe di Chi l’ha visto?, e tornerà dicendo che, se prima era stato scettico, ora aveva qualche speranza, perché c’erano elementi da approfondire. Quali? E come sono stati approfonditi? La pista londinese è rimasta appesa lì, per anni, e magari ora la ritireranno pure fuori.

È vero, come sostiene Pietro Orlandi, che la Chiesa non ha mai collaborato per ritrovare Emanuela Orlandi e, anzi, abbia cercato di insabbiare quanto avvenuto?

Pietro Orlandi non è più credibile neanche per chiedergli che ora siano. Lui ha fatto da megafono a tutti i bugiardi mitomani ed esibizioni, rilanciando ogni nuova pista di qualche presunto supertestimone. Il Vaticano quello che sapeva l'ha detto subito a Sica, come ho raccontato. In più la ragazza è scomparsa in territorio italiano e quindi le indagini le devono fare le autorità italiane. Quando è scomparsa la figlia di Albano negli Stati Uniti, non è che i magistrati italiani sono andati a fare gli sceriffi in America. Quando il magistrato De Verando nel ’97 chiude la sua inchiesta, si lamenta del fatto che il Vaticano non ha collaborato alle rogatorie, ma c’era poco da collaborare. Quello che aveva la Chiesa lo aveva già consegnato a Sica, che non si sa perché se l’è tenuto, forse temendo degli scandali, anche perché pare che lo Mario Meneguzzi, che lavorava in Parlamento, avesse agganci d'alto bordo.

Quindi per te la pista giusta qual è?

Io vengo accusato da Pietro e dai suoi tifosi di essere fissato con la pista familiare, ma non è vero. Perché quando sono stato interrogato dal magistrato del Vaticano, ho indicato un’altra pista, quella del padre di un amico di Emanuela, Pierluigi Magnesi. Il vescovo Salerno mi aveva raccontato uno strano episodio: Piero Magnesio si occupava degli impianti elettrici del Vaticano e aveva una sorta di furgoncino. Il mattino dopo la scomparsa di Emanuela, viene affrontato da un sacerdote che gli urla: “Scendi, scendi! Tu, non hai nulla da confessare? Eh, sicuro di non avere nulla da confessare?! Scendi, maledetto, scendi!”. Ed era evidente si riferisse a Emanuela. E poi, sempre secondo don Salerno aveva detto che la famosa persona che aveva infastidito Emanuela nel giardino del Vaticano era il padre di Pierluigi Magnesio. Piero Magnesio, tra l’altro, è stato cacciato dal Vaticano nel 1990 dopo che due ragazzine lo denunciarono per presunte avance sessuali. Anche su questo, per esempio, mi chiedo perché non si faccia chiarezza.

Un’ultima domanda.  La pista della violenza sessuale finita male, abbiamo visto, è in ballo fin dall’inizio, ma è l’unica che la famiglia Orlandi sembra non considerare, al contrario delle piste sul Vaticano, la Banda della Magliana, i servizi segreti e così via. Secondo te perché?

Come ha detto il magistrato Romano che ha celebrato il processo Moro, si tratta di un rapimento mediatico che ha garantito 42 anni di spettacolo. E poi la “pista normale” purtroppo prevede indagini nell’ambito amicale e familiare, c’è poco da fare. Quando io ho fatto un’inchiesta per l’Espresso sulla prima volta delle ragazze, ho anche contattato il Telefono Azzurro. Il responsabile di Telefono Azzurro mi ha detto che la figura principale è spesso lo zio. A Padova, quando ero studente universitario, per un certo periodo ho fatto l’assistente di laboratorio di una classe di fisica del liceo scientifico Enrico Fermi. Preparavo gli esperimenti che ogni settimana questa classe faceva. Più di una studentessa del liceo, una in particolare con la quale ero entrato un po' in confidenza, mi ha detto che da giovanissime erano state violentate dallo zio. Non è colpa mia se le informazioni che ho ricavato da diverse fonti e persone dicono questo. Ti ripeto, lo zio Mario Meneguzzi è sicuramente innocente, anzi, innocentissimo. Però andavano fatte delle indagini che si è preferito evitare, perché ci si è subito buttati sull'aspetto clamoroso. Del resto, se vediamo come vengono fatte le cronache di Israele e Gaza o della guerra russo-ucraina lo stile è più o meno lo stesso: il sensazionalismo. Il sensazionalismo.

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