La colonna sonora del potere è sempre il silenzio. Perché non serve parlare per fare a capirsi e perché certe dinamiche si allineano con gli sguardi, con gli scambi di favori, con quelle attenzioni che sembrano normali e invece significano sempre qualcosa. Viene da dirlo ogni volta che ci si trova davanti a un qualche grande caso irrisolto e, inevitabilmente, viene da dirlo parlando di Emanuela Orlandi. Anzi, non solo della scomparsa di Emanuela, ma pure di come un nome, Mario Meneguzzi, sia tornato d’attualità adesso che è saltato fuori un documento dei servizi segreti sulla scomparsa di Emanuela da cui mancano ben quattro pagine. Svanite, appunto, nel silenzio. Ma chi era Mario Meneguzzi? Era il marito di Lucia Orlandi, sorella di Ercole, il padre della quindicenne scomparsa a Roma il 22 giugno 1983. Figura riservata, silenziosissima, ma ben inserita negli ambienti del potere. Meneguzzi, infatti, lavorava all’epoca come gestore della caffetteria della Camera dei Deputati. È proprio questa sua posizione, insieme al legame familiare con la vittima, a aver attirato negli anni l’attenzione degli inquirenti e, più recentemente, dell’opinione pubblica. E’ morto da anni, ma è tornato a essere una figura chiave, forse non più per quello che potrebbe aver fatto, ma per quello che potrebbe aver taciuto.
Nelle prime ore successive alla scomparsa di Emanuela, infatti, fu lui a ricevere le prime telefonate da parte dei presunti rapitori. Si pose subito come portavoce della famiglia, intermediario con le autorità e con i media. Il suo atteggiamento però —che a molti era sembrato quasi invasivo — fu notato dagli investigatori. Tanto che in un rapporto dei Carabinieri del 30 agosto 1983 si sottolinea che Meneguzzi appariva “attivissimo”, insospettendo anche il magistrato che coordinava le indagini. Lo stesso Meneguzzi, intercettato e pedinato più volte nel tempo, avrebbe detto a un funzionario del Sisde di sapere che una delle auto che ogni tanto si ritrovava intorno apparteneva alla Squadra Mobile. Insomma, un uomo che parlava con i funzionari del Sisde, che era sì semplice, ma che – anche solo per il suo lavoro – aveva la possibilità di contatti quotidiani e continui con chi muoveva ai tempi i fili del potere politico e non solo. Come se gli inquirenti che al tempo hanno indagato sul suo conto lo considerassero uno di quegli elementi di congiunzione tra le reti privatissime di personalità che non possono esporsi e il mondo reale.
Non è certo una novità o qualcosa che emerge solo oggi l’esistenza di figure che si muovono tra i due mondi: abbastanza interne da essere informate, ma sufficientemente esterne da poter agire. Sono i fiduciari, i messaggeri, i “portatori d’acqua” o “quelli che fanno il caffè” al potere. Persone insospettabili che sbrigano. Reclutano. Convincono. Trattano. Senza di loro, la macchina non si muove. Con loro, invece, si muove passando inosservata. Permettendo al potere stesso di esistere ancora dentro il silenzio di cui ha bisogno, di omissioni calcolate, di una precisa e chirurgica capacità di non dire, di filtri e di una rete ristretta — selezionata con ferrea attenzione — che custodisca ciò che non può e non deve emergere.
Tutte considerazioni a cui si sono sempre aggrappati quelli che, negli anni, hanno sostenuto la cosiddetta “pista familiare” sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, concentrando lo sguardo proprio verso Mario Meneguzzi, additato come la parte visibile di un sistema più complesso. O, per depistare, come un uomo che aveva molto da nascondere, ma che poteva toccare i tasti giusti per attivare gli scudi necessari a uscirne senza conseguenze. Quella pista non è mai stata completamente esclusa. Ma spesso messa in secondo piano rispetto a ipotesi più complesse, magari anche più accattivanti dal punto di vista mediatico, e che chiamavano in causa servizi segreti, IOR, criminalità internazionale. Ipotesi e ricostruzioni – più o meno credibili – che hanno invece sempre mosso da convinzioni opposte, ma restando tutte, anche quelle che si smentirebbero tra loro, con una grande incognita su Meneguzzi.
Pietro Orlandi, fratello di Emanuela, ha definito la riemersione in questi giorni del nome dello zio come “una carognata”, denunciando un tentativo di “scaricare tutto sulla famiglia”. E c’è da dire, in difesa di Meneguzzi, che alcuni degli investigatori che hanno lavorato al caso in passato hanno confermato che lo zio di Emanuela era stato attenzionato in ogni modo e la sua vita passata al setaccio senza che emergesse mai davvero qualcosa che potesse sostenere i sospetti. Ma era, inutile negarlo, un uomo all’incrocio tra una famiglia che subiva la scomparsa di una quindicenne, la politica, le istituzioni e il Vaticano. Una figura che è sempre rimasta nel mistero. O comunque nei dubbi. Perché fu lui, e non il padre di Emanuela, a ricevere e gestire i contatti con i presunti rapitori? olo perchè, come ha sempre chiarito la famiglia, Ercole Orlandi era terribilmente provato da affidarsi pienamente al cognato? Perché — come mostrano gli atti — sembra aver avuto rapporti ambigui con soggetti legati ai servizi? E perché ora, dopo 40 anni, documenti inediti vaticani riaprono un’ombra che sembrava ormai archiviata? Nel 2023, il Vaticano ha trasmesso alla Procura di Roma un carteggio riservato che riguarda direttamente Meneguzzi. Tra questi documenti ci sarebbe anche una lettera firmata dal cardinale Agostino Casaroli, all’epoca Segretario di Stato, inviata a un sacerdote sudamericano. Nella missiva, Casaroli chiedeva riscontro su presunte “attenzioni morbose” che Meneguzzi avrebbe avuto nei confronti di Natalina Orlandi, sorella maggiore di Emanuela. La risposta del sacerdote fu affermativa, aggiungendo che Natalina, allora impiegata alla Camera dei Deputati (grazie allo stesso Meneguzzi? Ufficialmente Natalina Orlandi vinse un regolare concorso, ndr), avrebbe ricevuto minacce affinché tacesse.