Com’è che uno scrittore raffinato, pluripremiato (mai abbastanza) e fustigatore dei vizi degli italiani come Fulvio Abbate finirà al Grande Fratello Vip? Abbiamo provato a chiederglielo ma, se sulla trasmissione non può esporsi – e già questa è la prova che sarà nel cast scelto da Alfonso Signorini per il 14 settembre -, su tutto il resto è un fiume in piena. Televisione, letteratura, politica, religione, niente sfugge all’occhio critico dell’artista. Libero e talmente fiero di esserlo, da sentirsi pronto a rinunciare a tutto. Persino all’amicizia con Giampiero Mughini.
Tra l'altro, subito dopo la pubblicazione dell'intervista Mughini contatta Abbate e i due si chiariscono come leggerete di seguito.
Ecco cosa dovranno aspettarsi i telespettatori.
Di GF Vip non puoi parlare, ma di televisione sì. E di questo mezzo di comunicazione te ne intendi, non solo per averla frequentata, ma per essertene creata una tua personale. “Teledurruti, una televisione monolocale”.
Sono stato dal 1994 al 1998 la “pupilla” di Italia Radio, dove conducevo Avanti popolo. Quando quella radio è stata venduta al gruppo l’Espresso che l’ha “normalizzata” ha pensato che fossi ingombrante e mi sono trovato fuori. Così, quando ho incontrato un altro imprenditore televisivo, sono finito in questa tv che era una “palafitta” sulla Casilina, Teleambiente, dove ho fatto nascere Teledurruti. Prima e dopo di me c’erano personaggi pittoreschi, come Massimo Marino e il cantante Gigione. Nel 2003, finalmente, è arrivata la possibilità con un computer e YouTube di passare online e poi il progetto è diventato persino un libro omonimo, edito da Baldini e Castoldi. È la storia di un ex figurante televisivo che con un costume da criceto gira dentro a una ruota e, stanco di questa sua condizione coatta, decide di investire i suoi risparmi in una televisione privata che renda felice almeno un telespettatore sulla faccia della terra: se stesso.
E dopo la chiusura di Teledurruti, che in tanti hanno accolto con dispiacere, ora prosegui sui social con Pack. Come mai?
Credo di aver risposto a una ingiustizia quando non mi è stata più data la possibilità di fare radio. Non voglio alcun vincolo di tipo politico-ideologico. Pack è un oggetto esclusivamente mio. Non è giornalismo, non è informazione, è la mia televisione. La Tv di uno scrittore, grazie alla quale sono riuscito a portare avanti anche una delle mie passioni: l’osservazione degli oggetti.
Per chi non le conoscesse, quali consigli di andare a rivedere su YouTube?
Il momento più alto è stato quando a Teleambiente ho ricostruito una sezione del Partito comunista degli anni ’70. Oppure una trasmissione paradossale nella quale sostenevo che avere rapporti sessuali con i cammelli era molto soddisfacente, appoggiandomi allo studio di una università del Maryland.
Da anni vivi a Roma, dove sembra che utilizzi la città come studio antropologico sulla società.
Gli ho dedicato anche due libri: Guida anticonformista della città e Roma controvento, ma nei video faccio altrettanto ogni qualvolta mi sposto. Roma a volte è un fondale. Rappresenta il luogo dove i palermitani sognano di andare almeno una settimana ogni anno. Dove si vedono gli attori per strada, anche se è molto cambiata. Il paradigma su Roma più straordinario si ritrova nella tarda commedia all’italiana, quella già a colori con Gassman. In film come La pecora nera o In nome del popolo italiano. E poi ci sono le boutique in Piazza di Spagna.
Da scrittore, ti sei rivisto nel Jep Gambardella de La grande bellezza di Sorrentino?
No, per un motivo semplice: il materiale umano della vita mondana romana è assai modesto. Essendo un intellettuale, non riesco a non essere selettivo. Dico sempre, parlando della mia infelicità: se il mio obiettivo di individuo fosse trascorrere le serate con Malagò sarei a posto. Ma non vorrei mai davvero trascorrere una serata con lui. Da questo punto di vista non è una città che provoca il piacere della conversazione. È una città di battute e io detesto le battute.
Ti sei laureato con una tesi su Louis-Ferdinand Céline e l’apocalisse. In cosa lo trovi ancora attuale?
È uno scrittore straordinario, assoluto. Affronta degli stati d’animo primari. Possiamo ritenerlo un classico. Il tema dell’esodo è incancellabile. Non mi considero un celiniano, perché non ho forme di feticismo. Ma trovo che sia uno scrittore immenso, con capacità di commozione e rabbia incommensurabili.
Visti i temi che affronta, consiglieresti la lettura ai nostri politici?
Non gli consiglierei niente. La nostra classe politica è di una povertà assoluta. Come i giornalisti. Sono spesso ospite in Tv come commentatore. Non sono giornalista e mai vorrei esserlo. La cosa tragica è che il conduttore medio di un qualsiasi talk, salvo rarissimi casi, di fronte a chi introduce una variabile poetico-letteraria comincia a sudare freddo, perché ritiene che il giornalismo debba attenersi alla miseria della cronaca. Sfortunato quel conduttore o cronista che non riesce a trascendere l’agenda politica quotidiana. I politici sono di una povertà assoluta, prima di tutto espressiva. Ma, si sa, sono i servi che fanno il padrone.
Quest’anno sono 30 anni dall’uscita di Zero Maggio a Palermo, il tuo esordio letterario.
Con quel libro desideravo salvare la mia memoria della scoperta del mondo. Quello è un romanzo di formazione. La mia scoperta della città, Palermo, e la mia scoperta del “sogno di una cosa”, direbbe Pasolini. E cioè del comunismo. Se avessi scritto un romanzo unicamente su Palermo sarebbe diventato un classico e mi avrebbero ricoperto di premi, il fatto che parli anche di una sezione del Partito comunista italiano, pur liricamente, per conformismo ha nuociuto alla sua fama. Comunque, è considerato uno dei romanzi del ‘900 italiano nell’albo della letteratura. Flaubert, parlando di se stesso, scrive: “Soltanto allora mi sono sentito intero”. Credo si riferisca ai suoi 14 anni. È una nota che accompagna Novembre, un suo testo breve. E così volevo salvare quel mio momento di interezza, il maggio del 1970.
Hai scritto anche Sul conformismo di sinistra, che ha segnato il distacco dalla sinistra ufficiale. Da quel momento sei stato molto critico verso ogni trasformazione di quell’area politica, come mai?
È scaricabile gratuitamente in rete, ci tengo a precisarlo (a questo link) La storia è complessa, ma altrettanto semplice. Io non potrei essere neanche anarchico, benché abbia dedicato la mia televisione a Buenaventura Durruti, leggendario condottiero anarchico della guerra di Spagna. Detesto il manicheismo e lo schematismo degli anarchici. Semplicemente negli anni ’70 molti di noi abbiamo creduto che il nostro bisogno di rivolta potesse identificarsi con la falce e il martello. Così non era, perché i sistemi del socialismo reale sono stati mostruosi. Quindi nel tempo sono pervenuto all’idea di superare Situazionismo e Libertà, movimento da me creato, per arrivare a un oggetto di riscatto individuale che si chiama Avanguardia Narcisista. Io rispondo unicamente a me stesso. Visto che negli ultimi tempi accade sempre più spesso che mi interpretino come un filosofo, rispondo con una frase di Albert Camus: “Mi ribello, dunque siamo”. Non sta scritto da nessuna parte che uno scrittore debba lavorare alla costruzione del consenso, come ritiene questa sinistra d’accatto nella quale, anche solo per un fatto caratteriale, non potrei mai riconoscermi.
Come esempio di tutto ciò che non vorresti essere citi spesso Walter Veltroni.
Ci siamo ritrovati e abbiamo parlato a Milano, in via del tutto privata. Per il resto, immaginare me stesso a casa con altri scrittori cari a Veltroni, a guardare Sanremo e sgranocchiare patatine, mi fa semplicemente orrore. La sinistra, se non ha dalla sua l’affermazione dell’eros liberatorio, su di me non può attirare alcun interesse.
Hai nominato Camus. In questi giorni sei in libreria con La peste nuova, riscrittura di La peste bis che fa riferimento al famoso La peste, il capolavoro del premio Nobel franco algerino. È stata la pandemia a ispirarti?
L’ho riscritto radicalmente questo mio romando di 24 anni fa. Era una parodia del romanzo di Camus. Questo però è un romanzo filosofico, una riflessione sul rifiuto della speranza e sul senso del limite. È accaduto che durante il lockdown un amico francese mostrasse se stesso mentre leggeva La peste bis a casa sua a Parigi. In quel momento ho pensato di riscriverlo. Un romanzo durissimo, tragico, sul tema della preghiera da una prospettiva laica e atea.
Come diceva Pasolini, la “speranza” è una parola vuota?
La speranza di che cosa è fatta? Nel romanzo faccio l’esempio dei missili V2 che piovono sulla città di Londra durante la Seconda guerra mondiale. Nella casa A si recitano i salmi, nella casa B altrettanto. C’è forse una discrezionalità per cui Dio può ritenere la prima casa meritevole di salvezza rispetto alla seconda? Contiene questa e altre domande. E sono sempre più contento di aver radicalizzato il mio pensiero, in difesa della complessità.
Sabato a Roma è prevista la manifestazione dei negazionisti. Anche loro fanno parte della complessità umana?
Innanzitutto, le forme di negazionismo sono incancellabili. Trovo che tutto questo risponda a una subcultura fondamentalmente di destra, con una componente paranoica di chi ritiene che esista un superpotere che ci controlla. O scopriamo realmente l’esistenza della terra piatta, allora anch’io posso diventare terrapiattista con le prove alla mano, o è inutile. Mi ricordano quei ragazzi che passavano i pomeriggi a smontare i carburatori. Non si può negare l’esistenza del virus e dei morti. Se fossi parente di qualche deceduto per Coronavirus sarei molto aggressivo e violento nei confronti di queste persone.
In Francia è iniziato il processo sugli attentati che insanguinarono Parigi e Charlie Hebdo ha ripubblicato le vignette che portarono i fondamentalisti a islamici a entrare in redazione fare una carneficina. Tra loro morì anche Georges Wolinski, autore del logo dei tuoi movimenti politici. Hanno fatto bene a ribadire la loro posizione sulla prima pagina del giornale satirico?
Wolinski è un mio mito. C’è una intervista, che si trova in rete, dove siamo insieme e lui dice: “Noi in Francia non crediamo alle menzogne della religione”. Sottoscrivo totalmente questa sua riflessione. Non possiamo accettare l’idea che delle religioni nate al tempo in cui gli uomini si accoppiavano con gli ovini pensino di dettare legge. Anche perché il progresso ci ha fatto dono della pecora gonfiabile. Molto è cambiato.
Una forma di censura, meno cruenta ma altrettanto efficace, l’hai denunciata anche nei confronti del regista Franco Maresco che si è visto bloccare il suo film già prodotto con la Rai per alcune scene “offensive” verso il presidente della Repubblica Mattarella.
Noto semplicemente una cosa, che trovo scandalosa: il fatto che Maresco provasse a parlare con il direttore di Rai3 e quello non si facesse mai trovare al telefono. Maresco è uno dei pochi maestri di cinema che abbiamo in Italia e se neanche un maestro del cinema riesce a essere ascoltato è scandaloso.
Con Il Fatto quotidiano, invece, come va? Sei passato dal rappresentare una delle firme del quotidiano a essere querelato per un Tweet.
Ho ricevuto una querela per diffamazione. Con Travaglio e Monteverdi (amministratore delegato, nda) ci vedremo in tribunale. Per me è una medaglia una querela da parte loro. Sono stato una firma dal primo numero a quando si è interrotto il rapporto. Ho anche interrotto una serie di rapporti umani dopo quell’episodio. Ad esempio, non ho ricevuto una chiamata da Giampiero Mughini e da allora l’ho cancellato dal mio orizzonte. Avrebbe dovuto chiamarmi e il solo fatto che non lo abbia fatto pe me è sufficiente affinché io metta una croce sulla nostra amicizia.
Nel frattempo, Giampiero Mughini legge l'intervista e contatta Abbate, il quale ci ha tenuto a precisare: "Ricevo da Giampiero Mughini un messaggio in cui mi chiarisce che non sapeva nulla della querela di Travaglio ai miei danni. Per cui mi scuso per aver messo in dubbio la sua amicizia e il suo senso della libertà.
Per caso hai seguito il caso di Armine, la modella “non convenzionale” di Gucci e la pioggia di critiche e insulti che ha scatenato?
Premettiamo: lei oggettivamente è un cesso. Però non possiamo ritenere che esista un canone come nella Lega delle ragazze tedesche BDM (Bund Deutscher Mädel) della gioventù giovanile hitleriana, in cui rispondano tutte a un modello con le trecce e la magliettina bianca. Quindi pieno diritto di cittadinanza a questa ragazza, che per di più è armena e il suo popolo ha subito un genocidio tremendo nel 1915 da parte dei turchi, per cui piena solidarietà. Resta il fatto che, se la vedi di profilo, resta un cesso. È un dato di fatto, ma non è una colpa.
Vorrei concludere con Palermo, la tua città d’origine. Cosa diresti a un giovane palermitano con tanti sogni nel cassetto, come forse era il giovane Fulvio Abbate 37 anni fa?
Io non sono orgoglioso di essere palermitano. Me ne sono andato via e non mi sono mai più voltato indietro. Recentemente ho ricevuto una lettera anonima di minaccia dove era scritto: “Sporco comunista e arruso”, che significa omosessuale in palermitano. I primi due li considero complimenti, pur essendo un eterosessuale irreprensibile. Mi ha molto offeso solamente che in questa lettera scritta con il normografo il mio cognome fosse stato privato di una B, avevano scritto Abate. A un giovane direi di andarsene. Come si dice in dialetto “cu nesci, arrinesci” cioè chi esce riesce. Ma direi lo stesso ai miei vicini di casa di Monteverde vecchio. Sono felice di aver compiuto un gesto di discontinuità, di essermene andato dalla città in cui sono nato. È una delle cose più straordinarie che potessi fare. Avrei dovuto andarmene anche da Roma a un certo punto. Chi lo ha detto che dobbiamo fare riferimento alle radici? Non siamo piante, siamo rizomi, come diceva Jacques Lacan.
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