Batistuta è come la punizione calciata contro il Milan in Supercoppa. Potente, diretta. È come il sombrero a Baresi, limpido e delicato. Batistuta è la gioia genuina di una rete. In qualsiasi campetto o stadio. Wembley o Camp Nou, Franchi e Olimpico, Bombonera o El Coloso del Parque di Rosario, niente balli o c*****e varie, un urlo liberatorio, la personificazione dell’adrenalina che esce da ogni poro della pelle.
Batistuta è quell’Irina te amo che con tre parole, ti fa capire quanto siano importanti gli ultimi quindici centimetri di un essere umano che ha vissuto il suo incubo più oscuro provenire dal suo sogno più grande, il calcio. Ieri ha compiuto cinquantadue anni l’ultimo vero centravanti del calcio, l’altro, unico argentino che, insieme a Maradona, è riuscito a trascinarsi sulle spalle una città come Firenze e farne sognare un’altra come Roma. Ogni respiro, ogni lacrima versata, ogni aspetto di Gabriel, uomo, marito, padre, fratello, figlio, amico, e Batistuta, calciatore, campione, attaccante, lavoratore ce lo ha raccontato il regista Pablo Benedetti nel film “El numero Nueve” intervistato in esclusiva per Mow Magazine.
Novantatré minuti di video bastano per farci innamorare perdutamente (di nuovo, se mai non fosse successo) di un calciatore? Sì. O meglio, non bastano perché ne vorresti altri novanta. Un’indigestione di Batistuta. Un cerchio che si apre e si chiude con l’operazione alle caviglie, arrivato al punto di dire “tagliatemi le gambe, non ce la faccio più”. Una videocamera fissa, un viaggio lungo una vita, la sua vita. Pablo Benedetti ci ha spiegato come l’argentino si sia messo a nudo di fronte alle proprie incertezze, in una maniera a tratti disarmante. E allora, Batigol, quelle candeline spegnile con il rumore del vento quando calci un pallone, con il rumore del silenzio del Rio Paranà, luogo di culto-rifugio della famiglia, spegnile con chi ti ha amato con quella “Nueve” dietro le spalle. E grazie Pablo per averci insegnato a “Non essere un numero per essere libero, incarnare un numero per essere unico”.
Pablo perché dobbiamo vederlo (in loop) nei giorni del suo compleanno?
È il miglior modo di festeggiare Gabriel per capire chi è e cosa ha dato al calcio la sua persona, cosa ha dato a Firenze, Roma, all’argentina. È un film che può guardare sia il ragazzo giovane sia chi lo ha vissuto, è una storia che ti arriva immediatamente e il giorno dopo ti crea così tante domande dentro che automaticamente ti darai una risposta da solo, ti insegna a pesare il rispetto delle cose”.
Come mai hai scelto proprio Batistuta?
Negli anni in cui studiavo a Londra trasmettevano la serie A e sono rimasto affascinato dal suo essere un campione trasversale amato da tutti. Raccontare Gabriel è stato un sogno cinematografico, se avessi dovuto scrivere una sceneggiatura perfetta avrei inventato un personaggio identico a lui. Si è costruito da solo, non è nato benedetto da Dio. Ha iniziato tardi a giocare a calcio e quando ha capito che poteva essere un campione si è sempre allenato con perseveranza. Lavoro e dedizione.
Cosa ti ha colpito di lui?
Il suo lato umano. Una persona estremamente sensibile che tende ad alzare muri per timore di rimanere deluso. Un grande amante della famiglia, dei valori e di una grande sincerità, ti dice tutto quello che ti deve dire. Ero rimasto folgorato dalla sua situazione fisica, mi colpì quando dichiarava di essere in ospedale per chiedere di tagliarsi le gambe, una persona con una grande forza caratteriale, se devo star male così piuttosto le levo.
Nel film ci sono momenti difficili, scene di vita quotidiana, lacrime. In queste circostanze a cosa pensi? Come ci si comporta?
Non è per niente facile, a volte si instaura un rapporto di amicizia, quando fai un documentario del genere tutto ciò che tocchi è reale, complicato. Sei titubante nel tenere la camera accesa, ma sai che devi farlo perché è importante. La prima soddisfazione è la grande disponibilità che davano Gabriel e Irina, mettersi a nudo di fronte a me e al video, nel costruire il racconto. Ho sempre sentito un grande senso di fiducia sin dall’inizio, in quei momenti senti una persona che si affida a te, è bello. Vedere quelle situazioni ti rendono contento dal punto di vista tecnico, di quello che vai a costruire. Quando vedi il pianto di Roma, quando entra nello stadio argentino, è talmente sincero che capisci di essere riuscito a portarlo laddove stimoli le corde più sensibili della sua vita.
Gli davi indicazioni da dietro o faceva tutto lui?
Effettivamente mi ha sorpreso, era molto bravo e disinvolto. Gli davo indicazioni molto precise sia prima che durante e lui le seguiva, ha messo nella dinamica cinematografica quello che non ha messo nel calcio. Lì sapeva cosa fare, doveva fare gol indipendentemente da tutto e tutti, in quel caso ero io l’allenatore. Anche Irina è stata brava, una vera attrice non protagonista. Se lui era il nove lei aveva il dieci. Alcune scene come quella del cinema a Roma, dove lui non sapeva davvero cosa stesse succedendo, lei era il mio punto di riferimento. Ecco lì lui era completamente immerso, aveva soltanto un canovaccio da seguire per mantenerlo completamente a nudo e in maniera naturale ha reagito alla situazione.
La storia di un uomo che è arrivato a compromettere la salute fisica per amore del calcio. È forse questo il motivo per il quale il film inizia e finisce con l’operazione?
Non avevo immaginato una storia con una linea retta da seguire, ma un cerchio nella maturità dei suoi anni. Ha passato una vita lunga, enorme, è arrivato dall’Argentina che era un ragazzino adesso è diventato nonno, quello che abbiamo ripreso è stato un passaggio fondamentale, un cambio epocale. Abbiamo seguito tutti i passaggi medici fino al giorno dell’operazione, è stato un sollievo per lui, non voleva più sentire quel tremendo dolore alle gambe, tutto qua.
Avete ripercorso tutte le sue avventure calcistiche, quale è il momento che ti è piaciuto di più?
Al Franchi di notte. Rivederlo sotto quel passaggio, nello spogliatoio dove era commosso. Senti ancora la suo eco, davvero. Il ruggito del leone ed il peso che aveva per quella maglia. La situazione notturna, vederlo al centro camminare, toccare gli angoli esatti di dove segnava, è stata una bella scena. Un altro momento toccante è stata l’operazione, lì senti che ti appartiene. Sei in tensione per lui, hai seguito l’iter, l’intervento però è stato toccante perché cavolo oltre a filmare, lo accompagni, come un amico. Erano tantissimi anni che aspettava. Un incubo che veniva dal calcio, dal suo sogno. Un’altra nel Rio, luogo di culto, andava sempre lì prima di una partita importante. Il rumore del silenzio, come dice lui, lì capisci le sue radici, selvagge e forti, e la sua anima poetica e pacata.
Che mi dici dell’Argentina?
Sono situazioni talmente belle, genuine con gli amici che diventa una festa, era un po’ come star con persone che conosci da cinquant’anni. Sono stato da Gabriel quindici giorni prima delle riprese per stare con lui, una volta mi chiese di voler giocare a calcetto con i suoi amici. Ho vissuto talmente tanto quelle scene che tornati abbiamo voluto girare la magia di quei momenti. Con la troupe, bravissima, osservavamo la scena, quasi invisibili. Si erano create situazioni talmente intime, naturali che ti accorgi di quanto sia una persona sincera.
Bati come calciatore, qual è il suo gol più bello?
Wembley per la caparbietà e l’intuizione. Il cinquantesimo contro la Colombia perché mi viene in mente il commentatore che ti fa capire quanto fosse potente, prendeva la palla dalla sua metà campo e faceva quello che doveva fare, gol. Lui era il nove.
Che definizione daresti sul vocabolario alla parola Batistuta?
Non essere un numero per essere libero, incarnare un numero per essere unico.
Gli hai scritto per il compleanno? Cosa vi siete detti?
Gli ho mandato un messaggio, forse stasera lo chiamerò. Ma lui al compleanno non gli dà tanta importanza. Adesso è diventato nonno del figlio del secondo, Lucas. Lo hanno chiamato Lautaro, se guardi il nome e il cognome, Lautaro Batistuta, si parte bene.
C’è una cosa che non gli hai mai detto?
Sinceramente no, proprio per il rapporto che abbiamo instaurato. Ci siamo sempre detti tutto, spesso discussioni forti ma concrete e costruttive, di grande rispetto. Lui è questo e con lui devi essere onesto. Alla prima di Roma gli ho detto che gli volevo un sacco di bene, quelle cose smielate, sai. Mi ha insegnato tanto, mi ha dato modo di ribaltare alcune mie convinzioni, per me è diventato una persona di grande affetto, come dicono in Argentina un hermano.