Ha senso che una quasi settantenne se ne esca fuori con un album dalle tinte soul – dice bene il lancio: “un romanzo soul” – baciato da alcuni passaggi fortemente cantautorali? Ha senso tutto questo glorioso anacronismo? Sì, a patto che a firmare col sangue le tracce del progetto in questione – “Sei nell’anima” esce oggi su tutte le piattaforme digitali e in formato fisico – sia Gianna Nannini, artista nata grezza e dirompente e oggi fine manovratrice di fili sottili, talvolta quasi invisibili. Gianna Nannini, ma non è la prima volta (pensiamo a un gioiello come “Io”), qui si lascia illuminare da uno sbalorditivo ventaglio di sfumature, altro che “la Gianna solo rock”. Fa la cantautrice fino in fondo, Nannini, rigettando l’idea più pigra che si possa avere di lei. Preferendo continuare a “crescere davanti al pubblico”.
“Sei nell’anima” suona bene perché i produttori sono Andy Wright (Massive Attack, Jeff Beck) e Troy Miller (Amy Winehouse, Gregory Porter), ma è lei, Gianna Nannini, ad essere in forma strepitosa. Paradossalmente l’unico (mezzo) passo falso è “1983”, l’inno rock che apre il disco e che, presumibilmente, aprirà anche i concerti del nuovo tour. Funziona anche lui, a suo modo, ma è un brano che pare essere stato scritto in automatico, mentre nei restanti undici pezzi Nannini ci conduce nel più intimo (e non sempre infernale) dei gironi. E lo fa con un savoir faire che profuma di esotico e trasuda ispirazione. Perché se gli arrangiamenti – il gusto è soul-blues, ma in chiave pop; il sound è stratificato, fitto di dettagli – sono ricercati e puntuali, la scrittura di Nannini, pur rimanendo ancorata a una semplicità pop-rock che non richiede faticose parafrasi, svetta per limpidezza. È sempre l’amore il punto. Un amore consapevole delle ferite che si porta appresso, orgoglioso di essere vero seppur lacerato. Un amore che affronta tutto: mancanza, rimpianti, malinconie. Così, cantando questo amore, Nannini emerge come l’ammaliante chanteuse che preferisce dispiegare davanti all’ascoltatore tutta la propria arte anziché rifugiarsi nei soliti (e pur presenti) graffi rock.
Rispolvera “I’d rather go blind”, standard portato al successo, fra gli altri, da Rod Stewart, ribattezzandola “Il buio nei miei occhi”. Splendida, un colpo di classe. In “Silenzio”, altra perla, eleva un semplice “noi ci siamo persi e ritrovati sempre” a manifesto per sopravvivere al caos contemporaneo. “Parlami d’amore senza più parole”, implora, mai così convincente. Serve davvero a qualcosa un amore che sappia soprattutto parlarsi addosso, analizzarsi, o magari esprimersi attraverso vacue promesse? In “Lento lontano” i morsi del passato si fanno dolcemente aggressivi e allora – siamo in una ballata straziante - Nannini chiede una mano a Dio. E quando il ritmo sale (“Tutta la vita”), non pensate a una Nannini che abbia l’ormonale desiderio di arrivare al ritornello perché freme per farlo esplodere. No, in “Sei nell’anima” i ritornelli ci sono, ma sono incastonati in pezzi che si prendono sempre il loro tempo. “Maledetta confusione” conferma la ricchezza sonora dell’album (inserti orchestrali, influenze da ogni dove), ma è il trittico finale a sigillare egregiamente uno dei migliori dischi a cui la sua autrice abbia impresso il proprio marchio. “Ciao è meglio di goodbye”, apice assoluto, è un urlo fragile e doloroso, un pezzo sofferto, notturno, perturbante. Splendido il suo incedere quasi rassegnato in grado di liberare una delle migliori performance canore a cui Gianna Nannini abbia associato il proprio nome. Poi arriva “Stupida emozione” ed è una preghiera: “Seguimi di notte nella mia malinconia dove tutto sembra incomprensibile”. “Mi mancava una canzone che parlasse di te” fa calare il sipario su un disco che è un dolce brodo di ninna nanne soul. Dopo tanti suoni, tanta raffinatezza, si chiude con un tocco di cantautorato puro che ci riporta addirittura agli anni in cui Gianna Nannini era un artista più in potenza che in atto. Così il finale happy/sad parla di “un piccolo grande amore” mentre lei se ne va lasciando che il disco faccia ancora un paio di giri sul piatto. Più di così non poteva dirci. Più di questo non poteva confessarci. Dicevamo all’inizio: ha senso, oggi, una cosa simile? Ha senso perché l’amore è ancora un mistero e ogni interprete di questo mistero è necessario quanto la capacità di sostenere la nostra stessa immagine riflessa dallo specchio di casa. “Ti voglio ancora, ti voglio ancora”, urla, sul finire, su uno scarno tappeto acustico, iniettando questo benedetto mistero nella più comune e banale delle pretese. Chapeau.