Gianni Vattimo, l’ultimo grande filosofo italiano, è morto. Quanto resta della sua opera e della sua vita non può essere il tema di un articolo, e chiunque vorrà provare a confrontarsi con la sua filosofia, non potrà che cercare la sua, personalissima, via di ingresso. Questa è la prima lezione del pensiero di Vattimo. Nel pensiero ci si entra con il proprio progetto e il proprio vissuto. Tanto che il precipitato concettuale della sua riflessione, dopo decenni di carriera, polemiche e impegno politico, non si manifesterà in altro modo che in una rinnovata fede frutto degli eventi della vita. Il ché è chiaro, “perché il tema della religione e della fede sembra richiedere una scrittura necessariamente ‘personale’ impegnata” (Credere di credere). Personale non vuol dire senza basi, campata in aria. Ma che sa che direzione dare a quell’aria che ci gira intorno. Se siamo campati in aria come esseri, è bene che le nostre idee fioriscano con cura anche a quell’altezza.
Così, Gianni Vattimo ci lascia in eredità questa felicità del pensare a cui faceva da contrappunto, per sua stessa ammissione, una serie di eventi infausti e morti (a partire da quella, quando era giovanissimo, dei suoi genitori). Proprio questo legame con la vita stessa non permette di dividere il pensiero di Vattimo in specifiche fasi, nonostante si possano individuare tre momenti sostanziali del suo cammino filosofico: le interpretazioni di Nietzsche e Heidegger (e la vicinanza a un comunismo studentesco, colto), la sistemazione definitiva del “pensiero debole” a partire dagli anni Ottanta, ma già anticipata, nel 1979 dalla lettura debolisti dell’autore di Essere e tempo; e, infine, il cristianesimo debole, o cristianesimo nichilista, che coronerà la parola della sua riflessione. Per quanto la seconda fase sia debitrice alla prima, come l’ultima alla seconda, e dunque l’interpretazione filosofica (e non filologica, cioè alla lettera) dei due tedeschi risulti fondamentale, non è necessario per un articolo introduttivo di questo genere. E trovando impraticabile elencare per punti un pensiero formatosi e sviluppatosi prima di tutto come una storia (e non come una serie puntata di affermazioni tra loro facilmente collegabili), il modo migliore per introdurre il pensiero di Vattimo è tentare una sintesi del suo contributo più originale, il pensiero debole, nella sua espressione più compiuta, il cristianesimo indebolito, o nichilista. Per un’introduzione cronologicamente più elementare non c’è niente di meglio che il contributo di Antonio Gnoli al volume che raccoglie, per la Nave di Teseo, le opere principali di Vattimo.
Il pensiero debole
Nella sezione Pensiero debole pensiero dei deboli del volume Della realtà, Vattimo, prima che in altra sede, aiuta a comprendere la portata umanistica del suo pensiero, che si traduce nell’impegno non solo teorico, ma sociale, verso l’emancipazione dei “più deboli”. Il pensiero debole, infatti, altro non è che quel non accontentarsi “della quotidiana presentazione di ciò che è presente”, una volta che tutto ci suggerisce che l’Essere non corrisponde più a come gli oggetti ci appaiono. L’oggettività, l’idea che l’Essere abbia trucco e parrucco specifici, è morta con l’avvento dei linguaggi specialistici e la fine di quelle che il padre del postmodernismo in filosofia chiamò “grandi narrazioni”. In altre parole, quel Dio che è morto di Friedrich Nietzsche altro non rappresenta che la fine di una realtà stabile interpretata in modo univoco da alcuni valori specifici. La fine dei grandi valori assoluti, propagandati dalla religione, dalla scienza, o dalle ideologie totalitarie, porta a una perdita di centro nella società, così che, Vattimo nota, diventa impossibile “rinchiudere il mondo in una immagine unitaria”. In molti hanno realizzato che questa crisi di valori non poteva che costringerci a ripensare il mondo, ma le soluzioni sono state differenti in base agli obiettivi dei pensatori che ne hanno discusso. Le filosofie più conservatrici avrebbero voluto un ritorno ai grandi e stabili valori assoluti, mentre altri credevano di potersi rifugiare in quello che Vattimo definisce “misticismo”. Tuttavia né l’una né l’altra soluzione sembrano convincenti. Quello che serve, invece, è trovare un’alternativa alla violenza della vecchia metafisica, ovvero alla “perentorietà dei principi primi, dell’Essere che si darebbe ‘oggettivamente’ lasciando all’Esserci solo la sensibilità di esclamare ‘eureka’ e di sentirsi rassicurato, ma anche minacciato, dalla sua potenza soverchiante”.
In altre parole, l’unico modo per salvare Essere, capra e cavoli, è indebolirli abbastanza da non sentire più la necessità di tornare a filosofie coercitive e, in questo senso, diaboliche; dove, per intenderci, l’Essere mangia la capra che mangia i cavoli. Così, consapevoli che l’Essere, come voleva Heidegger, non può che darsi come un Esserci, cioè un evento che ha un progetto. L’uomo, dunque, è quell’essere che si dà da fare per ricordarsi di sé e dove vuole andare; un “essere” con la ‘e’ minuscola, finalmente indebolito. Questo non significa essere davvero relativisti, quanto piuttosto credere che l’unico modo di andare avanti sia accettare che la storia del pensiero abbia portato finalmente a questa grande risposta alla domanda più antica del mondo: “Che cos’è?”. Una risposta che non poteva essere più promettente per il futuro (al contrario di quanto riteneva che il nichilismo fosse una condanna per la nostra società).
Un cristianesimo indebolito
“‘Pensiero debole’ […] significa non tanto, o non principalmente, un’ira del pensiero più consapevole dei suoi limiti, che abbandona le pretese della grandi visioni metafisiche globali, eccetera; ma soprattutto, una teoria dell’indebolimento come carattere costitutivo dell’essere nell’epoca della fine della metafisica”. Con questa frase, presa da Credere di credere, possiamo passare al momento risolutivo del pensiero debole, il cristianesimo di Vattimo. È lui stesso a spiegare che un errore da evitare, prima di tutto, è credere che la sua fede, per come declinata nelle sue opere, sia solo un fatto personale. È un fatto personale tanto quanto sociale, poiché ciò che avviene nella tarda età di un essere umano avviene, per lui, nel mondo e nella società moderna. Per capirlo è necessario fare riferimento a quella crisi della ragione di cui si è parlato finora, cioè quella crisi dell’oggettività intesa soprattutto in senso scientifico: “Lo stesso fenomeno del ritorno della religione nella nostra cultura sembra oggi legato all’enormità e apparente insolubilità, con gli strumenti della ragione e della tecnica, di molti problemi che si sono posti da ultimo all’uomo della tarda modernità: questioni riguardanti la bioetica, soprattutto, dalla manipolazione genetica alle questioni ecologiche, e poi tutti i problemi legati all’esplodere della violenza nelle nuove condizioni di esistenza della società massificata”.
La società è cresciuta e la ragione resta un paio di braghe corte. Ecco che fa capolino Dio, in qualche modo un filo che aiuta ad allungare i pantaloni, ma non quelli della ragione, bensì quelli di quella fede che si vive da ragazzi e che si credeva a sua volta troppo corta, inadatta ai tempi. Si torna, cioè, a credere in quel Dio fattosi uomo e che si pone in continuità con i nostri limiti, cioè li supera al loro stesso gioco, con le stesse armi della ragione. Infatti, ed è un punto su cui tornerà in più occasioni Vattimo, la sua filosofia non deve essere considerata irrazionalistica. Non bisogna confondere l’entusiasmo di fronte al nichilismo cui si è pervenuti, con una sorta di minorità intellettuale, per dirla con Kant. Al contrario, Dio è una risposta che si presenta in modo ragionevole, come un “nocciolo di contenuti di coscienza che avevamo dimenticato, messo da parte, sepolto in una zona non precisamente inconscia della nostra mente, talvolta violentemente rifiutato come un insieme di idee infantili”. La fede, come l’Essere, si è nascosta, e fa capolino come evento. Così è chiaro perché la fede debole di Vattimo possa essere considerata il prodotto perfetto del pensiero debole. La fede cristiana indebolita è esattamente il pensiero debole, o meglio: “la trascrizione della dottrina cristiana della incarnazione del figlio di Dio”. Cosa fa Dio, infatti, quando diventa uomo, se non indebolirsi al punto da avviare, in sé stesso, una sorta di processo di “secolarizzazione”. Un Dio umano, non è separato dal mondo che viene a salvare, perché fa parte di come gli eventi si svolgono: “Il compimento della redenzione non è in una discontinuità totale con la nostra storia e i nostri progetti terreni”. Così Vattimo riesce a racimolare, dai frammenti del pensiero occidentale, una chiave di lettura per il futuro, quella del cristianesimo indebolito, che in fondo ha sempre fatto parte della storia “personale” dell’Occidente, “intimamente ‘lavorata’ e forgiata dal messaggio cristiano, o più in generale dalla rivelazione biblica (Antico e Nuovo Testamento). E su questo dovremmo riflettere, leggendo e studiando questo grande filosofo, nella speranza di trovare, oltre alla chiave, una porta e una casa per la società a venire.