Pietrasanta. Ottobre anomalo, nel trapasso autunnale ancora il caldo si potrae nelle maniche corte dei passanti. Il bianco marmoreo della città fa parlare di città borghese, ricca, col tono della pulizia del sacro. È tutto un dire che in una bellissima Chiesa di Sant’Agostino (sconsacrata, o per meglio dire, secondo voci, sospesa dalle funzioni religiose) Giovanni Lindo Ferretti e Pietrangelo Buttafuoco danno vita all’ultima serata del giorno al Festival dell'editoria e del giornalismo “Libropolis”. È tutto un dire, perché tengono botta alla rottura del classico passivo della conferenza. Gremita la chiesa come a una messa di tempi che furono, non hanno niente da proporre, non un canovaccio già pronto da ripetere.
Libropolis sceglie di smontare il paradigma: gli agenti della serata non sanno cosa gli spetterà, se non che da una scatola verranno tirati a sorte bigliettini con su scritto un tema. Talvolta una domanda o una suggestione. Ferretti col suo fare pacato e riflessivo, Buttafuoco con roboanti inflessioni di tono circumnaviga i temi tra storia, ironia e agiografia. Il primo è “le radici giudaiche dell’Europa”, con i due che conversano sulla natura ed origine cristiana dell’Europa, del continente eurasiatico, del rapporto tra Oriente ed Occidente, sugli scambi commerciali e culturali, sul valore della geografia e del mondo arabo che tese a preservare la nostra, di cultura, trascrivendo i grandi classici greci (da Platone ad Aristotele). E ancora: la Russia è parte d’Europa, e Buttafuoco incalza “anche la Turchia”, che da lì ha germogliato la cristianità e disperso i suoi semi. Poi, tematica ancora politica, e scottante. “Alzare o abbattere i muri”, con Buttafuoco che inneggia all’apertura e alla lode della diversità e Ferretti che misura e precisa: il muro non è l’assoluto, non se ne possono fare discorsi universali. Talvolta la contingenza porta a ritenere giusto alzare un muro, talvolta è giusto abbatterlo. Per poi uscire dalla storia, con la provocazione futuristica “guerra: unica igiene del mondo?”, che indica ai due il sentiero dell’attualità. Non senza contromosse, si entra nel dibattito odierno sulla guerra, con Ferretti che attesta criticamente il carattere fortemente massmediatico e social della guerra in corso, in cui la parola perde peso e valore assoluto, sostituita da un nuovo, immediato tweet o dichiarazione. Tutto si perde nel dimenticatoio. Buttafuoco appunta e tira le somme: “La storia non la scrivono i vincitori, ma gli sceneggiatori”.
Poi arriva la domanda che dice più o meno così: “Quando scenderete dal carro dei vincitori?”. E Ferretti per primo rimane spiazzato, non sapendo cosa rispondere. Ferretti è un vincitore della storia? Il suo iniziale imbarazzo pare sicuramente rivelare che lui non si consideri tale. Ma sembra di avere di fronte una fortezza inespugnabile, che non fa i conti (o almeno ha smesso) con la storia, con la politica, con l’attualità, con quello che pensano le persone del mondo e di lui. “Non leggo i giornali”, ripete spesso, salvo “Il Foglio”, di cui apprezzava i titoli di Giuliano Ferrara. Ferretti ha una fede in cui lo stesso mondo non si riconosce più, parla di “reazione” come di amore di un passato mitologico, quando per i più fa prudere la pelle, stimola fortori allo stomaco. È inesorabile come il marmo di Pietrasanta, rigido ma non inquieto, disposto al dialogo e allo scambio ed ancorato allo stesso tempo alla fede. Per esempio, quando parla dei suoi colloqui con Franco (Battiato), per quanto edificanti, subito esplicita la differenza di prospettive tra i due. Come per dire “io non sono Franco Battiato. Siamo diversi anche se dialoghiamo. O forse dialoghiamo proprio per questo”.
Pensiamo, oggi, a un uomo fermo sui propri passi come uno stolto, un ignorante; se non cambi le tue idee puzzano di stantio, vuol dire che non hai approfondito abbastanza, vuol dire che non accetti le opinioni degli altri, vuol dire che sei dogmatico. Ferretti invece torna alla fede di bambino e questo lo porta spesso a parlare di un “noi”, di una “nostra”, come facentesi testimone di una comunità, salvo poi ritrattare immediatamente con un “io”, con “la mia”. È inattuale e se ne accorge, non certo un vincitore, forse l’ultimo dei perdenti (o un disertore, se proprio dobbiamo dirlo). Ci dovevate essere, ed è inutile farne un sunto. È inutile anche aspettarsi improbabili lezioncine che sanno spesso di un vuoto eruditismo libresco. Non ci aspettiamo certo la quantità, contenuti, noi che abbiamo tenuto fede a quell’ora e mezzo di dialogo. Ci aspettiamo, anche solamente un guizzo di due o tre parole, senza troppi voli pindarici. Almeno metà della platea era lì per il personaggio e storce il naso, chiude un occhio per colui che oggi veste i panni e il nome di Giovanni Lindo Ferretti. Ma dove starebbe allora tutta la formalità di aprirsi alle menti altrui? Ma è forse è giusto così: ascoltarci, e poi tornare ognuno alle proprie faccende quotidiane.