Ci risiamo. Ciclicamente succede, e ogni volta il senso di disagio nei confronti della categoria della quale, seguendo il buon senso, dovrei far parte, cresce esponenzialmente, abbattendo confini che sembravano ormai degni di Alessandro Magno. Perché, mi dico, non può essere solo una faccenda di inaccuratezza, magari dovuta a questa nuova consuetudine di pagare quasi zero i novellini, quella la possiamo vedere sui siti internet, quando viene pubblicata la foto di Anthony Hopkins che interpreta Ratzinger il giorno in cui Ratzinger muore, o quando ci sono errori marchiani che una semplice correzione di bozze dovrebbe fermare ai blocchi, non certo su pezzi che sono destinati comunque a diventare oggetto di discussione, tanto più se destinati all’edicola. Quindi, mi dico, non può che essere una precisa scelta editoriale, e una precisa scelta editoriale che veicoli una notizia palesemente falsa non può che avere un secondo fine, nello specifico, immagino, quello di fare propaganda, cioè esattamente l’opposto di quella che dovrebbe essere la mission di chi si è votato alla cronaca. Perché non è ipotizzabile anche volendo che qualcuno abbia davvero creduto alla faccenda di Giuseppina, la bidella pendolare di Napoli, così ci è stata raccontata, parole loro, ventottenne che, ottenuto un posto di lavoro a Milano come operatrice scolastica, constatato che la vita nella metropoli lombarda è troppo cara ha optato per fare la pendolare, alzandosi tutti i giorni alle 4 per andare a lavorare su al nord, in treno, e poi ritornarsene nottetempo a casa, pronti via, di nuovo, ogni giorno. Una storia farlocca, a partire dalle foto che l’hanno accompagnata, una bidella che ha un abbonamento Trenitalia che costa quanto se non di più lo stipendio di 1100 e rotti euro al mese, le nove ore di treno, senza contare sugli scioperi, per entrare al lavoro alle 10, beata lei, che però si fa fotografare su Italo, e che comunque rivendica un attaccamento a un lavoro che sommato alle ore di spostamento occupa militarmente circa diciotto ore al giorno, roba che neanche uno degli orfanelli di Dickens. Tutto finto, è chiaro, condiviso però dai principali quotidiani nazionali, con un’enfasi che, questo il punto, lascia basiti, se non addirittura spiazzati. Perché, era già successo con la storiella dell’ex commercialista che ora farebbe il rider, felice e contento, la stampa nazionale sembrerebbe molto propensa a veicolare un messaggio alla nazione piuttosto chiaro, e stucchevole: lavora e crepa, senza più neanche consumare, manca il tempo per farlo, con un attaccamento al posto di lavoro fisso, e statale, che neanche la generazione dei boomers, quelli veri, nati sul volgere della seconda guerra mondiale.
Fermiamoci un attimo. Stare attaccati con le unghie e i denti a un lavoro che ci brucia tutta la vita, nove ore di viaggio giornaliere sommate alle ore passate al lavoro, per uno stipendio così basso che non ti permetterebbe neanche di prendere una stanza nell’hinterland, fatto poi tutto da verificare, non è qualcosa di eroico, da sottolineare con enfasi, quanto piuttosto un gesto folle, autolesionista, a prescindere di quale sia l’origine di questa Giuseppina, la sua situazione familiare (vive coi genitori e i nonni, dice). Qualcosa che dovrebbe essere vista con allarme, fosse vera, non con orgoglio, che dovrebbe essere risolta affidando Giuseppina a degli specialisti, perché questa forma di stakanovismo rasenta, anzi, supera indubbiamente, la sottomissione masochista, tendenza che, in genere, si tiene nascosta nelle stanze da letto, non si ostenta in prima pagina sui quotidiani nazionali. Quotidiani nazionali che, è evidente, cavalcano una notizia palesemente falsa non per viralizzarsi e provare a sopravvivere a una emorragia di lettori che non sembra avere fine, quanto piuttosto per farsi velina di indottrinamento allo stare zitti e buoni con l’obolo di stato che un tempo avrebbe accese non metaforiche micce.
Lasciamo da parte Giuseppina, che è un po’ come dire che per un attimo smettiamo di chiacchierare con il nostro amico immaginario, e proviamo a guardare al mondo della musica. In questa epoca di politicamente corretto esiste un solo luogo dove la censura e soprattutto l’autocensura non ha trovato asilo, la trap, e ancor più la trap radicale, quella, cioè, di chi, penso a gente come Baby Gang, RondoDaSosa, Neima Ezza, Simba La Rue, Saky, Keta, il giro della Seven 7, artisti, perché artisti sono, le loro canzoni, fatta la tara di una iconografia violenta e autocompiaciuta (per altro assolutamente nei canoni del genere) è decisamente più profonda di quanto un ascolto distratto potrebbe lasciar pensare, artisti che raccontano la loro vita ai margini, fatta di infanzie in case fatiscenti, intrise di una povertà reale, un disagio sociale incontrato una volta uscita dal blocco delle case popolari, a loro modo un micromondo che protegge chi ci abita, una voglia di riscatto che vede nei soldi, nel lusso, nel successo il solo punto di arrivo, esattamente come da decenni ci viene raccontato dai medesimi media che ci parlano dei sacrifici deamicisiani di Giuseppina la bidella pendolare, il mito del rampantismo non se lo sono mica inventati a San Siro oggi. Ecco, lasciamo da parte Giuseppina e pensiamo ai trapper. Li abbiamo giustamente guardati con allarme per i messaggi che veicolano attraverso un genere molto amato dai più piccoli. Una vita criminosa che affascina, certo, come è sempre avvenuto, Ian Solo era decisamente più cool di Luke Skywalker, per dire, come Lucignolo era più figo di Pinocchio, e mi fermo qui ma l’elenco potrebbe essere infinito, che affascina tanto più perché real, reale, non certo finta come quella dei rapper della generazione precedente, che ci parlava di vita di strada da comodi appartamenti di duecento metri quadri vista sul Castello. Ci siamo detti, genitori preoccupati, che non era corretto lasciare che quelle canzoni e soprattutto quegli artisti influenzassero negativamente le nuove generazioni col loro nichilismo, le pistole, la droga, il sesso visto a senso unico, quindi l’oggettificazione della donna, almeno nel linguaggio, linguaggio che però, è successo a tutte le generazioni da che esiste la musica leggera, forma poi il nostro vocabolario, contribuisce a costruire il nostro lessico anche morale. Pensare a uno dei nostri figli, ci siamo detti, che cresce identificandosi nella poetica di Mentalitè di Baby Gang, lui in carcere a Monza, quasi tutti gli epigoni del genere hanno seri problemi con la legge, tra arresti, comunità, processi e daspo, pur non essendo nati in case scrostate dall’umidità, senza termosifoni, senza aria condizionata, lo spaccio vista come unica attività possibile, la mamma cui regalare una casa coi primi soldi svoltati con la musica l’ideale da perseguire, pensare a questo, faccenda della mamma a parte, ci ha indotto a gridare a un pericolo imminente, magari anche senza nulla sapere di quel che andavamo parlando, chi di noi in fondo è mai entrato in un blocco della Aler, ma siamo sicuri che questo messaggio, una denuncia reale, seppur non mediata da un’idea di redenzione, sia peggiore che indurci a pensare che fare lo schiavo sulla tratta Napoli-Milano, felici di farlo, sia tanto meglio?
Intendiamoci, non sto dicendo che impugnare una pistola, foss’anche una pistola giocattolo, è meglio che rimboccarsi le maniche, ma che quella stessa stampa che tanto contribuisce a demonizzare i trapper, questo stanno facendo da anni, edifichi poi santini a lavoratori indefessi mi sembra il chiaro sintomo, quello sì, di un allarme serio, di una mistificazione della realtà da stigmatizzare con tutte le forze, significante che significa come il sistema tenda a confezionare un futuro senza speranze che non prevede l’ipotesi di alzare la testa, neanche ovviamente la voce. Temo che il messaggio di Giuseppina sia assai più pericoloso che quello che passa per le canzoni trap, perché non mette sul tavolo nessuna denuncia di una assenza dello stato, vero punto della questione, ma anzi guarda a un obolo irrazionale come un posto fisso a uno stipendio inadeguato con la gratitudine del bastardino cui stiamo dando una polpetta avvelenata.