Peccato, ho visto che si chiama Rush! il disco dei Måneskin e sono molto deluso perché la mia curiosità si era attivata dall’aver frainteso che il titolo fosse “esagerati” “moderni” “ridicoli”. Purtroppo il mio entusiasmo, anzi la mia esaltazione si è dovuta frenare nella triste consapevolezza che il titolo non era quel colpo di genio. Ma voglio per un momento fare finta che il vero titolo del nuovo disco dei Måneskin sia “esagerati” “moderni” “ridicoli”, con tanto di virgolette, beh, cosa dire, saremmo di fronte a qualcosa di clamoroso, un evento rivoluzionario da tutti i punti di vista, non basterebbe certo un articolo di giornale per affrontare l’analisi critica di un evento letterario di questa portata, ci vorrebbe un libro. Proverò a sintetizzare le ragioni di quello che nella mia opinione sarebbe potuta essere la più grande opera pop di questo tempo. Una mia prerogativa è sempre stata quella di riflettere molto su nomi e titoli, diciamo che è una mia attività parallela e ricreativa, un hobby letterario, se così si può dire, anche se poi di hobbistico ha ben poco visto che nomi e titoli sono forse la principale connessione di un prodotto con il pubblico. Prodotto o opera d’arte è la stessa cosa: sul titolo le leggi del mercato sono le leggi dell’arte e viceversa.
Ho scritto e riflettuto molto sul titolo, ho fatto un piccolo saggio una ventina di anni fa chiamato “discorso sul titolo”, quando ancora non avevo elaborato l’idea della grafica del linguaggio come disciplina, ma credo che quei lavori siano stati per me ciò che mi ha portato a individuare il campo scientifico interdisciplinare che ho chiamato “grafica del linguaggio”, poi più tardi ho scritto una sceneggiatura cinematografica di un film che forse non realizzerò mai, e che si chiama “il negozio di nomi”. Capirete, dunque, che se mi sono eccitato per il titolo mancato dell’album dei Måneskin ci sono delle ragioni abbastanza fondate. Nella storia dei titoli degli album il rock ha avuto tre grandi filoni, il titolo monolitico, il titolo lungo eccessivamente, il titolo neologistico. Monolitico: revolver. Lungo: The rise and fall of Ziggy Stardust and the Spiders from mars. Neologistico: Zenyatta Mondatta. Rush! Appartiene al filone Revolver già trito e ritrito. Battiato era una persona molto attenta e sensibile al titolo infatti è stato uno dei miei pochissimi interlocutori su questo argomento. Spesso le nostre conversazioni vertevano esclusivamente su titoli e titoli possibili. Una volta lo chiamai e gli dissi che avevo trovato il titolo per il mio album ed era “Quando l’anarchico Gaetano Bresci passo da Monza”. Era rimasto molto soddisfatto per questo titolo. Ma quando dopo due mesi gli comunicai che avevo avuto un’altra idea e che il disco l’avrei intitolato DaAAd mi rispose: "Sei in odore di grazia". Mi sono sempre divertito a dare nomi e titoli a gruppi rock che mi venivano a chiedere l’idea per gruppo o per album, poi l’ho fatto “professionalmente” ai talent show ma vorrei tornare ai Måneskin.
Esiste una modalità “adeguata” di concepire un titolo e una modalità “divergente”, cioè quello che in inglese si dice disruptive. Quel che tutti all’unanimità cercano dal titolo è quella qualità che chiamano “forza”, cioè anche se il pensiero filosofico di un gesto d’arte è di sottrazione, debolezza, se genere è introverso, abbandonico e finanche suicidario, il titolo comunque deve essere “forte”, e questo è un dato di fatto inconfutabile. Perché il titolo trascende l’opera, la supera: anche quando l’opera non funziona (quindi non esiste) il titolo esiste nella storia, anche quando un disco non vende, il titolo esiste nell’essere il titolo di quella cosa che non vende. Ho parlato di titoli con Peter Gabriel e gli ho parlato dell’ermetismo italiano, credendo che i suoi “us” “so” “up” ecc fossero ispirati ad Ungaretti. Mi ha guardato come quando un Labrador si vede allo specchio. Quando ho detto a Mogol che il disco che stava ascoltando in provino l’avrei chiamato “Canzoni dell’appartamento”, ha detto perfetto, c’è tutto, perfetto. E io - in che senso? Lui: scusa, c’è la parola canzoni, e c’è la parola appartamento, che cazzo vuoi di più? Ah, ok. Nel secondo disco dei Lombroso io ho collaborato in varie forme, come bassista, come produttore, co-autore, eccetera. Arriva il momento di dare un titolo all’album e non so da chi dei due, se Agostino o Dario, arriva la proposta di intitolarlo “Ago e Dario non dormono più”. Io sono balzato dalla sedia quando ho sentito questa proposta, così fresca, così originale, in tutti gli aspetti, anticonformista, che conteneva i nomi dei membri del gruppo, con quella apertura di curiosità spontanea che a chiunque (figuriamoci in contesti promozionali di interviste, radio ecc!) avrebbe certamente fatto chiedere subito perché Ago e Dario non dormono più. Quindi, insomma, una enorme quantità di ragioni positive intorno a questo titolo, una botta di vita direi. Beh, dopo qualche giorno Dario mi dice: il manager non vuole quel titolo. E perché ? Dico io. Perché dice che è strano. Strano? Si dice che non sa di titolo, che non va bene. No no va benissimo, dico io, fammi parlare con lui, gli spiego perché va bene. Gli scrivo una mail e lui non risponde. Non ha mai risposto, e il disco è stato intitolato col nome di una canzone dell’album, per carità, dignitoso titolo, “Credi di conoscermi”, ma nulla di paragonabile a “Ago e Dario non dormono più”. Bisogna avere sensibilità per queste cose. Lo sentite come “Credi di conoscermi” è un titolo giusto per una canzone, ma non è da album? E che al contrario “Ago e Dario non dormono più “ è un titolo perfetto per un album?
Insomma, nel titolo di un libro c’è un ragionamento diverso, ed è specifico della lingua in cui è scritto, il disco invece ha molte più gamme, più libertà sia translinguistiche che di significante, cioè di “estetica” del segno, perché concepito in uno spazio graficamente artistico e organico al contesto, e infine, ovviamente, perché il titolo di un’opera musicale deve non solo significare ma suonare. Ora, se i ragazzi maneschini avessero veramente chiamato il loro album “esagerati” “moderni” “ridicoli” avrebbero fatto un capolavoro e preso tutto con una mossa sola. Vediamo perché. Innanzitutto perché è autoironico nella lettura immediata e d’impatto, cioè la primissima cosa che arriva è la ventata di ironia, di non autocelebrazione, quindi una simpatia che mette a tacere tutte le accuse di divismo e di tracotanza. E dando quindi una base di ‘inclusivita’, di “tranquillità” tutte le letture secondarie e più profonde poggiano su una percezione di sintonia, di empatia
Parlo dell’intitolare un album “esagerati” “moderni” “ridicoli”. Così, con tre parole tra virgolette senza virgole di separazione, senza maiuscole e senza virgolette che le uniscano tra loro per dare un’interezza di titolo. Senza virgole e senza virgolette “cumulative” le tre parole sgattaiolano fuori dalla frase, scappano dal contesto, che sia una copertina o che sia un luogo di scrittura digitale, comunque sia quel titolo sarebbe un oggetto disgregato e sfuggente, proprio rappresentando il carattere ribelle che sta alla base di qualunque gesto che sia degno di essere rock. Ma questa non è che una delle tante ragioni per cui quel titolo (che non è) sarebbe una totale scoperta rivoluzionaria.
Le mie band si sono chiamate (dall’85 a oggi):
Reports. 1985
Lizard Mixture 1986
Smoking Cocks 1988
The Golden Age 1990
Bluvertigo 1992
Soerba 1996
Le sagome 2002
L’orchestra scomposta 2005
Memorandom. 2012
Louis G. Techno 2015
Komunimstagram 2020