Un tempo si sarebbe potuto parlare di Sanremo in questi termini, come fosse la nostra Las Vegas. Quando una carriera sembrava avviata sul viale del tramonto, quando cioè il prestigio sembrava essere in procinto di lasciare spazio a una certa cristallizzazione, sbriluccicante, quindi, ma un po’ meno dorato di prima, o quando i fuochi d’artificio iniziali erano ormai diventati parte integrante dello show, sempre al medesimo punto, meravigliosi ma talmente prevedibili da non essere in effetti meraviglianti, ecco che compariva la kermesse rivierasca, se non in gara con un passaggio ad hoc, magari come superospite. È capitato a molti, dire tutti sarebbe ingeneroso nei confronti di chi non c’è in effetti andato. Oggi la faccenda è diversa, perché a Sanremo ci vanno i ragazzini, quelli che dominano le fittizie classifiche di streaming, ma anche quelli che riempiono gli stadi, spesso quelli che gli stadi li devono riempire, una assenza di alternative a rendere Sanremo necessario, e di conseguenza a averlo trasformato in una specie di coacervo di generi, i generi sono una invenzione malsana dei giornalisti musicali, pigri, e soprattutto di nomi improbabili uno a fianco all’altro, chi l’avrebbe mai detto che i Cugini di Campagna sarebbero andati in gara con una canzone de La Rappresentante di Lista a vedersela con Lazza o Colapesce e Dimartino, lì a competere con Tananai, in gara con un brano firmato anche da Paolo Antonacci, figlio di Biagio e nipote di Gianni Morandi. Mi sanguinano gli occhi come alla Madonna di Civitavecchia, confesso. Quindi un tempo si sarebbe potuto parlare di Sanremo come della nostra Las Vegas, giunti a un certo punto della propria carriera un artista decide di andare da quelle parti, e prova a fare il colpo della vita, vincere, nel caso di Sanremo, così funzionava un tempo, partecipazioni a orologeria. Mhmmmm.
In realtà dovremmo tutti smettere di parlare di Sanremo. È vero, ottimi risultati di share, quasi bulgari, le classifiche che immagino nelle prossime settimane subiranno la medesima invasione, ma Sanremo è Sanremo ma è anche finito, guardare avanti, andare oltre, dovrebbe essere oggetto di un qualche decreto. Il fatto è che gli U2 vanno a Las Vegas, residency al The Venetian, è noto come a Las Vegas si ispirino a noi europei, che per dirla con Pitchfork, non saremo certo famosi per il rock, loro parlavano dei Maneskin, ma in quanto a bellezze je l’ammolliamo parecchio, la più grande struttura circolare al mondo, diciassettemilacinquecento spettatori, per un costo di quasi due miliardi di dollari, mica noccioline, con lo schermo a led più grande del mondo e col sistema audio-spaziale più grande, ovviamente, del mondo, centosessantaquattromila casse acustiche. Il tutto per celebrare il trentennale, Santo Dio, di Achtung Baby, come dei Tom Jones più rock’n’roll. Del resto a Las Vegas, come a Sarnemo, giuro che smetto, ci sono passati un po’ tutti, o almeno in tanti, a partire proprio da Elvis, che è un po’ il capostipite di chi ha fatto del termine rock’n’roll la propria professione sulla carta di identità. Certo, poi ci sono i Paul McCartney che ne parlano, dell’andare residenti a Las Vegas, come del finire al cimitero degli elefanti, ma mica tutti hanno militato nei Beatles, vien da pensare.
Quindi, ok, alla fine anche gli U2 vanno a Las Vegas, pronti a calcificarsi sulla via dei dollaroni. Ma, e qui forse sta la vera notizia, nel farlo annunciano la definitiva perdita di un pezzo, loro che forse erano l’ultima band a non aver cambiato formazione in quarant’anni e passa di storia, della serie, se proprio dobbiamo invecchiare facciamolo con tutti i crismi, le rughe, certo, ma anche i capelli bianchi e un accenno di problemi alle anche. A partire, in fondo funziona quasi sempre così, il personaggio minore del gruppo, come a suo tempo era accaduto ai R.E.M., Larry Mullen jr alla batteria, per problemi di salute, lascia il posto a tale Bram van den Berg, già dietro le pelli e i tamburi con i Krezip, che sarebbe come a dire stocazzo. Del resto, anche qui, sostituire uno di famiglia non deve mai essere facile, e invece di ricorrere a un nome roboante, degno di chi se n’è andato, optare per un Mr Nessuno è quasi sempre la scelta più ovvia, come dire che la band diventa ufficialmente a tre, tanto anche Adam Clayton, al basso, non è che sia esattamente centralissimo nella narrazione u2iana. Adam Clayton che in passato ha in effetti defezionato, parliamo proprio del tour di Achtung Baby, a Sidney, un hangover difficile da gestire, se non impossibile, a impedirgli di salire sul palco, sostituito al volo da un tecnico della band, Clayton ai tempi aveva seri problemi di dipendenza, si parlò addirittura di un suo allontanamento, salvo poi rivederlo sul palco con gli altri. E se in passato è capitato più e più e più volte di vedere in giro Bono e The Edge, in duo, a rappresentare la band, in fondo sono i due volti più noti del gruppo, i Mick e Keith o Paul e John di turno, stavolta non è previsto un ritorno al passato per come ce lo siamo sempre visti di fronte. Quindi ok, Song of Surrender, il nuovo album, li vedrà ancora in formazione completa, ma a seguire Larry Mullen Jr non sarà più della partita, a introdurre Sunday Bloody Sunday un Carneade qualsiasi, e la partita si giocherà a Las Vegas, il cimitero degli elefanti indicato con disprezzo da Sir Paul McCartney, anche solo averli disprezzati per la nota questione del pasticciaccio fatto con Apple, quando ci infilarono a forza un loro album nei device dovrebbe farci venire qualche senso di colpa, o far guardare al futuro come alla prevedibile collisione a terra di una parabola cominciata da tempo. Come si dice in questi casi, bene, sì, ma non benissimo.