Manca poco al via della nuova e ultima stagione di Gomorra - serie evento Sky arrivata alla quinta stagione -, però non c’è solo chi la attende con trepidazione, ma anche chi tirerà finalmente un sospiro di sollievo. Fra loro Davide Cerullo, nato, cresciuto e attualmente residente a Scampia, che dopo aver fatto parte del mondo della criminalità già da giovanissimo è diventato uno scrittore e un fotografo che da anni cerca di raccontare anche la bellezza del suo territorio. Nono di quattordici figli, a 14 anni guadagnava un milione di Lire al giorno spacciando droga per conto di un clan, a 16 anni impugnava una pistola e scorrazzava per le vie del quartiere su una moto del valore di undici milioni: “Mi sentivo il padrone del mondo”. Poi un regolamento di conti, due killer hanno cercato di ammazzarlo e non ci sono riusciti solo perché la pistola, puntata alla pancia, si è inceppata. Ma non si è inceppata quella che ha esploso i colpi alle sue gambe, lasciandolo in un bagno di sangue con tibia e perone distrutti. Poi il carcere a soli 18 anni, dove fortunatamente – caso più unico che raro – incontra la letteratura e, seppur con difficoltà, riesce ad allontanarsi dagli ambienti criminali. Oggi, dopo aver fondato l’Albero delle Storie, un’associazione e spazio aperto dedicato ai bambini del quartiere, continua l’attività di sensibilizzazione dall’Italia alla Francia, dove ha pubblicato con un editore importante come Gallimard ed esposto le sue foto a Parigi. Gomorra sarà visibile dal 19 novembre in oltre 190 paesi nel mondo, ma Davide – che le storie da cui è tratta la serie le ha vissute sulla sua pelle – non la guarderà, come d’altronde non ha guardato le stagioni precedenti: “Il libro e il film di Roberto Saviano erano una denuncia, la serie no. È diventata nociva per i bambini, i ragazzi e le persone delle periferie napoletane che non hanno gli strumenti per contestualizzare”. Infatti, per lui il rischio – che già vede compiersi – è quello dell’emulazione: “La violenza sta diventando qualcosa di normale e questo è pericolosissimo”.
Davide, tu che quelle storie le hai vissute direttamente, con che spirito guarderai Gomorra?
Non l’ho mai vista la serie, solo qualche pezzetto. Diciamo che come italiani e napoletani dovremmo andare orgogliosi di questa serie per la sua qualità e la bravura degli attori. Anche se, bisogna dirlo, alcuni atteggiamenti e linguaggi non li condivido. Nella malavita non si usano, come i faccia a faccia o l’eccesso nell’uso delle parolacce. È tutto troppo e in abbondanza. Nella realtà non esistono. E poi si è esagerato in fatto di violenza. E siccome Napoli, soprattutto la periferia, è fragile sulla camorra e la criminalità organizzata bisogna starci attenti. A New York non se ne sarebbero neanche accorti.
Cosa intendi quando definisci le periferie “fragili”?
Per esempio, che abbiamo ancora un tasso di analfabetismo che fa paura, che porta a una mancanza di protezione verso certe immagini che possono traumatizzare i giovani. A un bambino di 5-6 anni che guarda Gomorra un genitore che non ha certi strumenti non mette una mano davanti agli occhi. Allora c’è il rischio di convincersi che siamo davvero così. Addirittura, al piacere del crimine. Io non sono più d’accordo che si vada avanti con questa serie, fortunatamente è all’ultima stagione. È diventato solo un modo per riprodurre una violenza visiva che scatena traumi nei bambini nati fragili in questi contesti, che poi diventando ragazzi di 13-14 anni con un forte rischio emulazione.
Lo vedi intorno a te questo rischio emulazione?
Non ce l’ho con Roberto Saviano, ci tengo a precisarlo. Anche se va detto che Gomorra non è più una denuncia. Il libro e il film lo erano, il resto è diventata un po’ una furbata. Nelle mie vene scorre questo territorio e posso confermare che condiziona tantissimo. Già esisteva questo condizionamento, non è che Gomorra ha creato la camorra, però è un sovrappiù che danneggia il tessuto sociale.
Scampia è diventata anche un luogo turistico.
Sì, ma bisogna vedere perché vengono qui. Arrivano un sacco di persone per vedere le Vele e le zone in cui è stata girata la serie. Ma non perché sono mosse da un senso di debito etico verso questi luoghi, per fare qualcosa o dare una mano. E questo racconta che, anche se non era nell’intento di Saviano o dei registi, Gomorra non cambia, non soleva, non sostiene. E ora è diventata nociva. Non sono per la censura, figuriamoci, ma ti faccio un esempio. Un giorno sono venuti dei ragazzi da Bergamo e nel parlare mi hanno detto: “Questo è il luogo ideale per imparare l’illegalità”. Allora gli ho chiesto: “Dov’è stata scoperta la più grande raffineria di eroina?”. Non lo sapevano. Era a valle Imagna, nel Bergamasco, già nel 1990.
È il rischio della spettacolarizzazione?
Io ho visto davvero le teste a terra spappolate. Ho conosciuto un mondo sporco troppo presto, sono stato sparato, ho fatto parte della malavita, ma bisogna provare a entrare negli occhi di un bambino che vede queste immagini così forti. Il rischio è che la violenza diventi qualcosa di normale. Per questo bisogna parlare con le persone che conoscono come affrontare certi argomenti, perché ormai si sta diffondendo persino la “malattia del protagonista”, che è altrettanto pericolosa.
Qual è stato il momento peggiore della tua vita?
Quando mi hanno sparato. Io ero entrato in quel mondo giovanissimo quando lo zio, durante la retata della polizia, mi diede le sue armi e quelli di altri e, insieme a un amico, riuscimmo a scappare e farle sparire. Gli abbiamo dimostrato così di poterne far parte. Ma poi quello stesso zio l’ho visto quando ha ucciso una persona: è sceso dall’auto, gli ha puntato la pistola alla testa e lo ha freddato. Erano persone che andavano eliminate per fare posto ad altri, come me e il mio amico, e avere il controllo della zona. Così come, in seguito, ho visto lo zio essere ucciso e sfigurato dai colpi di kalashnikov.
Perché a un certo punto hanno cercato di ucciderti?
Stavano cercando il mio capo e ho raccontato delle bugie per non farlo trovare. Per due giorni mi sono arrivati dei “messaggi”, poi due killer. Mi sono salvato soltanto perché la pistola, quando me l’ha puntata alla pancia, si è inceppata. Sono scappato in un circolo per anziani e quando sono entrato loro hanno cominciato a sparare all’impazzata, le porte a vetri sono esplose. Ho pensato: “Sto morendo”. Quei due sicari a volto scoperto sembravano divertirsi. Non sono neanche certo che dovessero uccidermi, ma presi dal furore avrebbero potuto farlo. Alla fine, mi hanno appoggiato le canne delle pistole sulle gambe e hanno sparato: mi hanno distrutto tibia e perone. Una signora piangendo mi ha aiutato mentre perdevo sangue e poi mi hanno portato in ospedale.
Sembra un po’ una scena di Gomorra…
Hanno sparato anche a un ragazzo che non c’entrava nulla. Sono stati esplosi 32 proiettili. Io ero l’obiettivo principale e prima di entrare in azione li sentii dire: “Spariamolo perché questo è un infame”. Sai, credo che noi nasciamo più dagli incontri che facciamo che dai libri che leggiamo. E gli incontri sbagliati sono quelli che ci chiudono al mondo, alla vita, che uccidono il desiderio del vivere. Poi c’è stato l’incontro che mi ha aperto alla vita, al mondo, a più mondi possibili.
Dalla lettura di Pier Paolo Pasolini, come hai raccontato spesso, ai tuoi libri, le tue mostre fotografiche, i progetti sociali che porti avanti. Immagino, però, che dopo il carcere non sia stato facile non avere la tentazione di tornare in quella realtà che già conoscevi.
Credo di essere stato un caso particolare. Forse ci sono riuscito perché non avevo ucciso nessuno e non avevo segreti eclatanti. Ma la fatica maggiore è stata quella di uscire dal me stesso sbagliato. Ho trasformato il peggio di me nel meglio di me. Ho dovuto lasciare una realtà che a 14 anni mi faceva guadagnare 1 milione di Lire al giorno, la moto che a soli 16 anni usavo ed era costata 11 milioni, le ragazze, le discoteche, il bere, gli amici, il rispetto, l’onore, l’appartenenza, la fratellanza. Tutto questo ho dovuto eliminarlo. Una fatica enorme, che sto facendo ancora adesso.
Si fa più fatica ad abbandonare il denaro o il sistema di valori che ti insegnano?
Che ti insegnano a non aver fiducia di nessuno. Neanche di tua madre. Pensa che i poliziotti i e carabinieri corrotti ci avvisavano tre giorni prima di un blitz. Per cui, noi dovevamo spostare droga, armi e persone e non potevamo dormire a casa. Dove andavamo non era possibile dirlo neanche ai nostri genitori. Per questo abbiamo bisogno di esempi, e allora i miei erano tutti sbagliati.
E la serie Gomorra non è un esempio per te, mi sembra di capire.
Ma certo, perché continuare a far esistere e resistere quel mondo facendo film, libri e scrivendone sui giornali? Ci sono tantissime vittime di camorra nel mio territorio, però molte hanno addirittura venduto le memorie diventando degli eroi loro stessi. La vittima come eroe del nostro tempo. C’è quasi stata una competizione tra vittime per trovare la storia migliore da vendersi per emergere nella società. È qualcosa di sinistro, perché utilizzare la memoria per fare carriera non mi sembra giusto.
C’è ancora la camorra a Scampia?
Innanzitutto, non c’è una criminalità buona e una meno buona. Sono tutte cose bruttissime e non dovrebbero esistere. Ma bisogna capire che la criminalità esiste perché esiste una forza che non è solo dentro la criminalità. E soprattutto resiste perché il mafioso è in Parlamento. Per durare le mafie hanno bisogno di degrado e abbandono dei territori. La periferia di Napoli è piena di criminalità organizzata perché, oggi come in passato, è abbandonata a se stessa. Quindi c’è qualcuno che vuole mantenere questa condizione.
Qual è la situazione oggi di Scampia a livello criminale?
Sono convinto che ci saranno conseguenze preoccupanti perché lo Stato non si sta occupando della criminalità giovanile. È efferata e violenta e molto poco riflessiva. Ha bisogno di crescere e la violenza genera rispetto, per cui è portata alla violenza assoluta, immediata e contro tutto e tutti, bambini, anziani, senza se e senza ma. È poco combattuta e controllata. Direi addirittura sottovalutata.
Però di Scampia di parla anche per tante realtà positive sorte in questi anni?
Certo, tante realtà hanno creato luoghi sacri di bellezza, con una consapevolezza nuova e un grado di umanità che non si trova in nessuna altra parte d’Italia.
Secondo te le Vele andrebbero abbattute?
Noi non abbiamo una storia. Il quartiere Sanità ha una storia. Forcella ha una storia. Noi quella storia da conservare non ce l’abbiamo, ma un brutto passato da cancellare sì. Però le Vele non sono state solo criminalità e droga, sono state case, accoglienza, un progetto importante e pensato per far stare bene le persone, infatti la colpa non è della struttura. Anzi, è l’infrastruttura più importante mai costruita a Scampia. Oggi non si sta facendo meglio, perché nei nuovi lavori di riprogettazione mancano ancora gli spazi comuni, per esempio per i bambini. Io credo che le Vele siano qualcosa di molto suggestivo e che fa pensare, al di là della droga e della malavita, che andrebbero mantenute.
Nei tuoi lavori fotografici sono spesso protagonisti i bambini. Hai raccontato di aver voluto recuperare attraverso di loro il bambino che non sei mai stato. Lo hai ritrovato?
Ho fotografato i bambini perché ho rivisto quel bambino che non sta facendo il bambino. A quelle età dovrebbero imparare giocando con i loro spazi e modi per maturare come cittadini liberi e consapevoli e quando è possibile la vita sarà più riuscita. Ma chi si preoccupa di questo percorso? Un altro grande problema delle nostre zone è la maternità precoce. Di una ragazzina di 14 anni incinta, non bisogna preoccuparsi solo di cosa darà da mangiare a suo figlio, ma anche cosa gli dirà. Quale direzione gli farà prendere? Se nessuno ci pensa il primo stato sarà l’abbandono, quel bambino non avrà una madre adeguata e a volte neanche il padre che spesso è assente per problemi legati alla delinquenza. Quel piccolo sarà orfano di madre, di padre e di valori che gli avrebbero permesso di avere una vita riuscita. E così si continuano ad allevare degli infelici.
Come te la immagini la tua Scampia tra vent’anni?
Alla Martin Luther King: “I have a dream”. Vorrei che la scuola tornasse a formare davvero. Che l’istruzione fosse considerata come il primo elemento di rinascita. Il mio sogno personale, però, sarebbe di vedere una Scampia piena di scuole all’aperto per sottrarre i ragazzi all’indifferenza. Le scuole al chiuso puzzano di noia.
Che cos’è per Davide Cerullo la felicità?
Per me è aver avuto la possibilità di nascere una seconda volta.