Eppure l’influencer può cambiare una vita, non dico salvarla. Ma perché no? In un tale garbuglio modaiolo, di divine prossime l’una all’altra, incontro mesi fa un esempio che per me, per chi vi scrive, avrebbe assunto una impensabile stranissima necessarietà. Non il bel visino, non l’inutile profumo del duo di stilisti o non so, i marchi proposti neanche troppo segretamente, dalle nostre cosiddette “imprenditrici digitali”. Da quella vacuità non avrei tratto un accidenti, un paio di sbadigli al massimo, nemmeno un accenno di sanissima invidia. Nulla. Vi dicevo l’incontro decisivo, mesi fa. Un reel, incocciato vagamente, distrattamente, come accade sui social abbastanza spesso. È una youtuber, molto attiva ovunque tuttavia, in ogni piattaforma. Il reel propone il mukbang, fenomeno per me sconosciuto fino ad allora. La creaturina asiatica sembra appena uscita da un film animato di Miyazaki. È seduta davanti a un tavolo, basso, secondo le usanze degli orientali, ha appena finito di cucinare. La osservo mangiare zuppe e carne di maiale, foglie di lattuga, salse piccanti di zenzero e ravanelli. Mi sembra tutto ridicolo all’inizio, assurdo, per le quantità, per il suono che restituisce il video, riproducendo la masticazione. Rimango ipnotizzata. Comincia in quella maniera la mia passione per il mukbang. Così comincio a guarire. Grazie a questa creaturina asiatica che risponde al nome di Hamzy, una giovane donna di Seul, seguita da 9 milioni di follower.
Comincio a guarire appunto. Da cosa? Intanto dalla mia inappetenza. Dall’incapacità di alimentarmi. Una difficoltà che mi perseguita da anni, la ragione per cui sono finita in un centro per disturbi alimentari. Qui scendiamo nella oscenità del dolore esposto. Vi chiedo scusa. Tuttavia non potevo omettere la circostanza. Perché di fatto, con Hamzy, non con uno psichiatra, non con i pellegrinaggi da un nutrizionista a uno psicoterapeuta, ho ripreso a mangiare. Ho ripreso con Hamzy. Adesso qualcuno salterà sulla sedia, punterà il dito contro l’ammissione scellerata. Per me è andata così. Ho ricominciato a reintegrare gli alimenti che avevo escluso dalla mia dieta, guardavo Hamzy mangiare e volevo imitarla, perché mi ispirava il medesimo desiderio. Piano piano, da non credere. Le zuppe di Tofu. Il Kimchi di verdure fermentate.
Ho cominciato a pranzare e cenare senza il terrore, che mi è difficile spiegarvi, l’angoscia che mi coglieva, come il cilicio da indossare. Immaginate, una condizione del genere, trascinata per anni. Per cui anche reggersi sulle gambe poteva essere un’avventura, senza considerare l’esclusione sociale, anzi, la difficoltà (non del tutto risolta) di frequentare una socialità, che prevede pranzi, cene, aperitivi. Non so quanto guadagni Hamzy, ha anche alcuni canali televisivi. Sarà senz’altro una piccola diva in Corea, ce ne sono altre, magari la superano sul podio, si tratta sempre di classifiche a ben vedere, uno squallido mercato anche questo. Ma io seguo solo lei, Hamzy. Perché sono guarita. Allora il senso di una influencer potrebbe essere riconquistato, nelle varie derive che esplicano realtà inattingibili, da una inconsapevole, perlomeno in superficie, opportunità devoluta all’altro, nella ricaduta pratica e appunto salvifica. Continuo a seguirla, scopro, mentre cerco in rete notizie di lei, che è nata il mio stesso giorno. Casualità che si incrociano. C’è ancora del buono anche nell’irrilevanza, dunque. È quel che mi viene da pensare. Ho incontrato Hamzy a marzo. Prima del pranzo e della cena, fino ad allora, spesso piangevo. Era come andare in guerra, ed era difficile spiegare, essere capita. Oggi, semplicemente, mangio. Perché ho fame. Grazie a lei, ad Hamzy, la coreana di Seul.