Ci sono classifiche autorevolissime. Ci sono persino copertine mondane, cover delle riviste di moda, che elencano le più brave, le più belle, le più “influencer”, nell’istigazione implicita a primati che francamente non interessano a nessuno. Così mi imbatto in lei, forse per una banale questione di omonimia. Veronica Ferraro non è sul podio e nemmeno tanto al di sotto delle altre stelline con milioni di follower. Lei ne ha per l’esattezza un milione e mezzo. Su Instagram ogni foto ne replica un’altra, cambi d’abito, sullo sfondo: palazzi milanesi, dalle raffinate boiserie, con gli archi tonanti, rinascimentali o barocchi, dedicati ad atelier della contemporaneità, in un tripudio sublime di niente, cioè roba destinata a finire, al macero, ma con molti francesismi al seguito, da usare all’occorrenza. Tutte cose molte fredde, paurose se vogliamo, dove pare dimorare la più straziante delle solitudini, una superbia bolsa. Come certi discorsi, enfatici, assolutamente vani. Veronica è un’imprenditrice digitale ed è l’amica affezionata di Chiara Ferragni. Affermazione letta in un’intervista. Quante amiche affezionate ha la Ferragni? C’era quell’altra, secondo posto nel podio, non ricordo nemmeno il nome, dichiarava qualcosa del genere. Milioni di follower, labbra importanti, filtri, stiramento di guance, zigomi orgogliosi. Ecco, cerco aggettivi nuovi, per riscattare l’ovvietà aggiunta alla cosiddetta bellezza, una bellezza sfilacciata dal brand. Marchio, dicasi marchio. Abbastanza vago nell’insieme, un valore dentro l’altro, la bellezza sembra non esserlo affatto. Veronica ha un nome evangelico, lo dico con profondissima partecipazione. Ma siamo fuori da ogni grazia. Al massimo posso aspettarmi la severa precisione di un dizionario di lemmi tratti dall’inglese parlato. O idiozie mondane. Nel senso invece che guardaroba leggo outfit ovunque, in sua sostituzione, fit, signatur look. Varsity jacker.
Veronica Ferraro. Nome sconosciuto, fino a ieri. Non rientro nella masnada degli accoliti. Non rientrerei mai dentro l’alveo di un consiglio spalmato in proporzioni industriali, o lanciato alla stregua di coriandoli. Preferisco restare un ronzino con l’ambizione dell’outsider, ed è l’unico inglesismo che vi concedo. Le influencer hanno bisogno di una platea adeguata. Si dice: fit. Di insicure, magari. Mi sta bene un pantalone baggy? Perché non lo chiami oltre misura, sorella? E invece: baggy. O cargo. Cargo come certi pantaloni militari. Cargo però è un italianissimo patriottico sostantivo. Evviva gli undicimila sostantivi dimenticati. Ma non sono affari su cui perderci il sonno. Le influencer, tutte prese a ragionare sull’ultimo crop top, risveglierebbero gli istinti più bassi di un accademico della Crusca. Renderebbero sconsolatissimo l’avveduto Achille Lucarini, autore del visionario dizionario delle parole difficili.
Non voglio esultare per un baggy indossato sotto a un crop top e una varsity jacker. Sono già morta, di una morte morale, atipica finanche da tutte le altre morti morali. Ce ne sono per ognuno di noi, per ogni afflizione, baratro, dove scivolare, nel brusio e nel tormento, svuotati di superbie bolse, al riparo dentro palazzi aristocratici trasformati in atelier, in boudoir dell’orgoglio raffinato nella pira di una qualche indecenza che comunque chiameremo, con un vezzo esotico, elezione. Le influencer. Alla fine sono tutte carissime amiche della Ferragni. Un sentimentalismo che non mi ispira il sospetto, non meno o non più che un’opportunità applicata tout court in ogni faccenda della vita. Fino a realizzare, ancora una volta, che il sentimento e il sentimentalismo sono una piega deteriore (non solo interiore, bé insomma alla mercé delle viscere) dell’essere umano, un vizio, una innocenza bardata di stupidità, nonché aggettivazione inattingibile se considerata in taluni contesti, come gli atelier, ad esempio. Veronica Ferraro possiamo senz’altro chiosare così: ha un po’ tutto nella sua vita, tradotta in pixel. Non mi assumo la responsabilità di ridefinire l’assunto: ha un po’ tutto quello che non serve.
Serve la stoffa piuttosto per sopravvivere nella immaginifica solitudine della socialità brindante. Una allucinazione da viaggio acido. Eppure le persone vivono, una socialità freddissima, senza necessariamente perdersi in commiserazione o sofismi drammatico-poetici. Sopravvivervi è un merito. È del valoroso soldato, che vince trincee che non difendono, scudi vaghi e salottieri. Ci sono stupidità ben peggiori, sono sempre più una fanatica del benaltrismo. Stupidità come la gioia segreta nello scoprire che il sostantivo “labdacismo” indica la difficoltà a pronunciare la lettera elle. Eh?