La zona, che non è quella di Stalker, ma molto più pericolosa, è la zona verde (e la speranza non pervenuta) in quei boschi al confine tra Polonia e Bielorussia dove i rifugiati vengono trattati come bestie in una riserva di caccia. Vessati, umiliati, torturati e lasciati senza cure mediche da gruppi di soldati che riescono ad accanirsi - pure - tra di loro, polacchi e bielorussi che nella notte si sparano addosso per puro divertimento. Alexander Lukashenko ha fatto credere ai migranti che passando dal confine Bielorusso/Polacco avrebbero avuto facile accesso all’Europa, e tutto questo per fare pressione all’Ue creando, al contempo, un girone infernale soprattutto per chi proviene da Asia, Medioriente e Africa. Agnieszka Holland, settantacinque anni, candidata due volte all’Oscar, porta con un documentaristico bianco e nero le contraddizioni di un paese, la Polonia, che da una parte ha accolto circa due milioni di ucraini e, dall’altra, si dimostra totalmente intollerante nei confronti di profughi d’altro tipo. Ne avevamo avuto prova con l’Ungheria che accoglieva una certa tipologia di immigrati, bianchi, lasciando indietro ucraini di primi e seconda generazione ma di origine africana o mediorientale. D’altronde, siamo nell’epoca dell’attivismo tramite hashtag, dell’inclusività via asterisco, ma la storia, o le storie, di una famiglia scappata dalla Siria e diretta in Svezia, e di una donna afgana insegnante d’inglese che vuole sfuggire ai talebani, ci danno prova che il mondo reale non è quello rassicurante dei social.
Green Border si sviluppa su più capitoli -quattro- e diversi punti di vista: la famiglia siriana, la professoressa, la guardia polacca Jan con una vita schizofrenica tra pubblico e privato, gli attivisti e, in particolare, la psicologa Julia che decide di non rimanere una testimone silente dei danni del governo polacco. Green Border, vincitore del Premio speciale della giuria a Venezia, ispirato, ovviamente, dai fatti reali del 2021 dopo le dichiarazioni dannose e le minacce di Lukashenko, ha richiesto una mole impressionante di interviste con attivisti, rifugiati, esperti, guardie di frontiera e i residenti di queste zone di confine. Per chi non è del tutto estraneo alla politica internazionale Green Border rischia di essere ridondante e con dei momenti faciloni, di sociologia buonista, soprattutto nel voler dimostrare che gli adolescenti profughi non sono poi tanto diversi da quelli occidentali, in alcune scene degne di una pubblicità inclusiva della Benetton degli anni Novanta; così come – a tratti– risulta fastidiosa Julia che non capisce perché gli attivisti, perennemente controllati dalle guardie di confine, non possano mai spingersi oltre il confine della legalità e ciò che possono fare per gli sventurati nelle foreste è prestare un primo soccorso del tutto insufficiente: cibo e bevande calde, vestiti e scarpe nuove e cure mediche. Per Julia, residente nelle zone di confine, ancora ignara delle regole del gioco al massacro che attua il Paese contro i migranti, il buono praticato degli attivisti non è abbastanza.
Sarebbe stato bello se Green Border avesse osato di più nel suo essere claustrofobico perché, d’altronde, se non ti uccidono le guardie lo faranno le foreste paludose - il confine verde - o settimane di stenti, violenze e privazioni. Definiti dai soldati dei ‘proiettili umani al soldo di Putin’ in Europa migliaia di persone vivono in un eterno limbo dove la speranza non filtra mai, come la luce in quelle foreste sempre uguali dagli alberi altissimi. Green Border, con qualche scena di troppo, riesce comunque nel suo intento di informare e, soprattutto, di non rassicurare lo spettatore costringendolo a guardare ciò che accade tutti i giorni a poche migliaia di km da noi. Holland riprende il discorso lasciato più di trent’anni fa con Europa Europa per mostrarci quanto la gloria di questo continente sia finito; che la fine del nazismo non significa nulla (i gruppi di estrema destra si sono scatenati contro il film in Polonia) se gli stessi schemi comportamentali vengono riproposti, ogni giorno, al confine; che la caduta del Muro di Berlino non ci ha reso più uniti e che, come accade trasversalmente per ogni cosa, ci sono vittime che sono più vittime di altre a seconda del paese, del governo o delle persone che devono emettere un giudizio. Un po’ come quando ci sbracciamo - giustamente - di fronte al genocidio che si sta svolgendo a Gaza senza pensare al lento, ma non meno doloroso, stillicidio di minorenni che raccolgono le terre rare utili a costruire i nostri smartphone permettendoci, così, di indignarci per le ingiustizie del mondo. D’altronde, per citare Goebbels in un colloquio col regista Fritz Lang: ‘Decidiamo noi chi è ebreo’.