Sono passate poco più di due settimane dal 10 dicembre, quando Guè Pequeno - che nel frattempo ha tolto il riferimento a City of God dal suo nome d’arte - ha presentato alle classifica Guesus, settimo album in studio. La prima volta che Guè ha parlato del suo compleanno in un disco è in Butto Via Tutto, quarta traccia di Penna Capitale, 2006:
Creo per raggiungere il creatore /
Lui mi caccia dal creato svuotando un caricatore /
Figlio di uno scrittore /
Nato del giorno del Signore/
Quindici anni più tardi esce Guesus. Nel panorama musicale in cui gli artisti si alternano in classifica come le pagine di meme, dal trend al dimenticatoio in un paio di mesi, quindici anni sono un’era geologica. Giusto chiamarlo così. Giusto metterci la spocchia se dietro c’è la credibilità di chi lo fa da vent’anni alla sua maniera.
La domanda quindi sorge spontanea: bisogna recensire il disco o l’imprenditore? Perché l’imprenditore è inappuntabile. La sua discografia, l’ascesa quindi, stellare. Se misuri il successo in denaro non manca nulla. Il disco è diverso: c’è quello che vuoi da lui, quello che ti aspetti in ottima forma e sostanza, ma con 16 tracce è lungo. È come se, con Guesus, il rapper milanese volesse uscire dalla banalità dei testi più forti per trovare l’altezza, mettere in piazza il tormento di chi ha tutto e sfornare il suo capolavoro con canzoni tristi. In un’intervista con i bambini dell’asilo, per Noisey, ha detto che la sua canzone meglio riuscita è Brivido. La verità però è che la sua canzone meglio riuscita è (e sarà sempre) quella carica di barre da strada da pompare in macchina. Per fare il figo, per sentirtela calda almeno un po’, gangstar almeno un po’, Guè almeno un po'. Sse vuoi nuotare nell’egotrip, Guesus è un prodotto che luccica, d'altronde è stato certificato disco d’oro in una settimana.
Lo stile di Guè, social o meno, è anche quello inappuntabile. I vestiti, la vita che mostra su instagram, le promo: è tutto altissimo, vero. Ed è giusto parlarne, perché un disco hip-hop nel 2021 è anche questo. Guè è perfettamente a suo agio nella narrazione del rapper con le collane, ma rimane lontano dagli altri perché - rispetto agli altri - è vicino alla realtà che racconta. Una realtà fatta di macchine esagerate che passano sotto una pioggia incessante di cocaina, euro nel bagagliaio e quattro escort a bordo. È quello che tutti raccontano, lui però è tra i pochissimi a poterselo permettere: ha cantato di queste cose da prima che fosse di moda finché la moda non è diventata lui.
I pezzi del disco sono come le Big Babol: street, gomma grossa, da masticare a bocca aperta. Colore, sapore. Hanno quel gusto lì, l’America che arriva in provincia. Poi la sputi, quando hai voglia ce n’è un’altra uguale. Ancora e ancora, finché ne vuoi. Si potrebbe prendere una strofa e metterla in un’altra canzone che andrebbe bene lo stesso. Quello che manca è una traccia che ti resta addosso, quella che vuoi mandare in un attimo agli amici. Dopo due settimane di ascolto, abbiamo sentito tanti banger ma nessun pezzo da mandare in loop per venti minuti o da far partire come prima cosa una volta mese le cuffie.
La tecnica, invece, è sempre a punto. Le produzioni sono estremamente curate, c’è il suono degli inizi e quello nuovo che arriva da lontano, Guè - talmente boss che recca da seduto - si adatta bene a tutto. Il disco apre con La G la U la E Pt. 2, già icona perché racconta bene il resto delle tracce. C’è un suono dritto dalla veccia scuola, che poi è lo scratch su di un bpm che rimbalza, ed è chiuso da una citazione (inaspettata e bellissima) a Rap Soprano. D’altronde di citazioni il disco è pieno, il cinema di strada promesso in Guesus c’è davvero: un’enciclopedia di riferimenti cult e underground da andare a cercare come i bonus in un videogioco.
Il disco scorre liscio in una pioggia di punchline, spruzzate di ironia e momenti introspettivi. Di questi anche troppi, per la verità. Perché se Guè è bravissimo a declinare i modi più impensabili per fottere (oggetti, donne, sostanze…) quando vuole parlare di sé finisce per risultare quasi impacciato, come se fosse alla ricerca di un capolavoro e il suddetto capolavoro dovesse per forza essere una canzone triste. Guesus non fa miracoli, ma è sempre il vangelo del rap: le collaborazioni sono al posto giusto, sentire Rick Ross e Jadakiss in un disco italiano è un’emozione vera anche se abbiamo visto i Maneskin duettare con Iggy Pop. Ecco, Guè non è i Maneskin, è tutto vero. Talmente tanto che fa fatica ad uscirne quando vuole commuovere.