A Gian Arturo Ferrari, ex mega direttore generale di Mondadori (si dice che avesse l’acquario con gli scrittori che ci nuotavano dentro), forse ancora come riflesso pavloviano, si dà sempre ragione, ma c’è un passo, nella sua “Storia confidenziale dell’editoria italiana”, pubblicata da Marsilio nel 2022, su cui avrei da ridire, col Suo permesso, umilmente, devoto, che riguarda uno dei libri che mi hanno formato, “Come vivere – e bene – senza i comunisti” di Roberto D’Agostino, pubblicato nel 1986 e che, nelle categorie del mio pensiero, fa il paio con “Ai comunisti – lettere da un traditore”, di Giuliano Ferrara, pubblicato da Laterza nel 1991, e che insieme formano il dittico letterario dello sgretolamento del PCI. Riannodiamo le fila dei gloriosi anni Ottanta, quando io, disperso in una Roma sul finire del socialismo, abitavo con Celestino Tabasso, sardo figlio di un magistrato tra i fondatori di “Movimento per la Giustizia” (poi confederatasi con Magistratura Democratica – confederatura appellata “i cocomeri” perché scritta su carta verde, ma rossi dentro), io cacciato da un collegio marianista e lui, proveniente dallo stesso collegio, domiciliati in uno strano palazzo in Piazza Tuscolo, ove, nella fontana al centro del cortile abitava una gigantesca carpa che meditavamo di sequestrare. Io, che abitavo – e bene – con un comunista duro e puro e in meravigliose Church (vestivamo solo di flanella e tweed e Church e loden e Burberry’s) tessevo le lodi di “Come vivere – e bene – senza i comunisti” considerandola – davvero, non scherzo – la bibbia del futuro. E non avevo torto, da quel libro, che era un catalogo di figurine, di immagini, di stili, di atteggiamenti, di superficie, passando attraverso gli anni Ottanta, i novanta, l’avvento di internet, i social, Instagram, TikTok, per approdare all’armocromia (portami via) si è dimostrato profetico oltre ogni immaginazione.
Anzi, precedeva di cinque anni la teorizzazione del libro di Giuliano Ferrara, in cui lo sgretolamento delle ideologie (cercatevi voi le cause, dalla caduta del muro di Berlino alla demenza del genere umano che non ha mai capito il marxismo) prendeva una forma intellettualmente compiuta, lo “spiegone”, cioè dire, del libro di Dago, che con fulminanti “catologhi” (genere poi nobilitato da Umberto Eco) restituiva, per immagini, quello che di lì a poco sarebbe storicamente successo. Erano gli anni in cui, e io e Celestino ce la spassavamo, era possibile essere in disaccordo tra comunisti e socialisti in maniera ironica, con dialoghi superbi tra persone che comunque avevano una base comune e si confrontavano con quell’ironia del pensiero di cui oggi, Dago, è custode come il “maestro di chiavi” in “Ghostbusters”, epoca altrimenti finita con la barbarie del lancio delle monetine all’Hotel Rahael del 1993.
Il passo dell’altrimenti piacevolissimo libro di Gian Arturo Ferrari (si dice che avesse un pouf di pelle di scrittori, in ufficio) che vorrei criticare è riportato nell’aneddoto riguardante proprio il titolo (“Come vivere – e bene – senza i comunisti), titolo al quale, nel racconto del megadirettore Ferrari, si opposero sia Caruso, l’editor, sia Formenton, della famiglia Mondadori in persona. Gian Arturo Ferrari, nel suo memoir, si prende il merito di avere salvato il titolo (prendersi il merito, o procurarsi il merito, o parlare del proprio merito, o raccontare specifici fatti che dimostrano come il merito sia di Ferrari, è una caratteristica del Ferrari stesso – ho avuto la fortuna di incontrare questo gigante, en passant, per un breve periodo della mia vita, purtroppo un periodo fatto di lotte interne, di possibili fusioni – che poi porteranno a Rizzoli/Mondadori) di tagliate di faccia - metaforiche - di gossip e di tutto il cucuzzaro) senza però rinunciare a una critica al volume di Roberto: “Un libro un po’ sminuzzato, non un granché”. E no. Con tutto il servile rispetto che si deve a Gian Arturo Ferrari: e no! Il libro era sminuzzato come sminuzzata sarebbe divenuta la nostra civiltà, era sminuzzato come le “stories”, era sminuzzato come gli “slogan” delle campagne elettorali che hanno preso il posto della grande retorica, era sminuzzato come i mattoni del muro di Berlino e come i Booktoker su TikTok.
La sminuzzazione di “Come vivere – e bene – senza i comunisti” era profetica in senso assoluto, come “Del Pensare Breve”, di Manlio Sgalambro, pubblicato da quell’Adelphi che forse mai ha riconosciuto a Dago la consacrazione ufficiale a casa editrice immagine, e dunque instagrammabile, grazie al cazzeggio meraviglioso sull’insostenibile leggerezza dell’essere di Kundera, che in mano di Dago diventò tormentone (oggi, le case editrici, supplicherebbero perché un loro titolo diventasse un tormentone come quello sui social). Questo era quanto dovevo affidare alla scrittura per ricordare un’epoca strana e meravigliosa, per ricordare due libri strani e meravigliosi, quello di D’Agostino e quello di Ferrara, in cui ancora si frequentava un pensiero adesso scomparso nelle micronarrazioni – come predetto, appunto, da Dago.