Le premesse di “72 seasons”, l’undicesimo album in studio dei Metallica, hanno suscitato interesse fin dal primo momento in cui, sul finire dello scorso anno, sono diventate news. Affermazioni, quelle di James Hetfield, che suonavano come un manifesto programmatico: “Le 72 stagioni a cui alludiamo sono i primi 18 anni della nostra vita, quelli che formano i nostri veri o falsi “sé”. Buona parte della nostra vita successiva è una ricostruzione delle nostre esperienze dell’infanzia o della prima giovinezza. O una reazione a quelle esperienze”. Una dichiarazione, di per sé, neppure così originale. Non fosse che Hetfield è leader di una delle band heavy metal di maggiore successo nella storia del rock. E che Hetfield, Ulrich, Trujillo e Hammett, dal punto di vista anagrafico, viaggiano tutti fra i 58 e i 60. E che i thrashers della Bay Area (dai, chiamiamoli ancora così, come se di botto fossimo tornati al 1986), infine, non sono nuovi a perlustrazioni, anche dolorose, attorno a ‘sto benedetto “self”. Perlustrazioni, indagini, che talvolta sono apparse una contestazione all’idea di essere per forza “metal a vita”. Non intendiamo qui analizzare “72 seasons”, che per chi scrive – in estrema sintesi – è fra le cose migliori la band di Frisco abbia sputato fuori dai tempi di quell’album nero, nel bene e nel male, assolutamente spartiacque. Rischiando di dire il già detto – tra le tante recensioni disponibili online cercatevi su YouTube quella un po’ sgangherata del sempre esilarante Eddy Cannistraci – diciamo che questo disco profuma, solo occasionalmente, di vecchio e fiero thrash, presentandosi perlopiù come una compatta summa dei Metallica post-thrash, una band con intermittenti problemi di prolissità e identità. Ma se la prolissità è una questione che, in concreto, si traduce in brani che potrebbero arrivare al medesimo dunque in 4/5, e non 7/8, minuti – in casa Iron Maiden la prolissità, ad esempio è stata a torto scambiata per “profondità quasi-prog”, ma il discorso cambia poco –, la questione dell’identità è più delicata perché il metal con l’identità ha sempre avuto un conto aperto. Per cui, giusto per chiudere la parentesi su “quanto è bello o brutto il nuovo dei ‘Tallica”: è un bell’album, soprattutto se ascoltato con le orecchie e non con il desidero di ritrovare i Metallica del proprio cuore. Nonostante qualche lungaggine, scorre bene; almeno la metà dei brani si fa ricordare e nel complesso suona come un tributo a sé stessi e a tutti i numi tutelari dei primi Four Horsemen (l’esercito della NWOBHM). È quindi l’esistenzialismo più o meno esplicito che impregna l’intero progetto a calare “72 seasons” in una dimensione degna di ulteriori indagini. L’identità, dicevamo. Nel circo hard-heavy è un valore soprattutto se non cambia col passare degli anni (persino a Motörhead e AC/DC alcuni non hanno perdonato qualche nota fuori copione, figurarsi ciò che ancora oggi si dice, ad esempio, dei Maiden epoca-Bayley o degli Slayer di “Diabolus in musica”, e perdonatemi se mi affido solo a nomi altisonanti forse in grado di toccare anche la sensibilità dei metallari non osservanti). Perché il metal è una fede e una fede si presta, al massimo, a lente evoluzioni, ma mal tollera le rivoluzioni.
I Metallica, che nel loro nome contengono il nome della fede medesima, più di una volta sono passati per apostati (“Load” e “Reload”). E se da una parte una vera scomunica non è mai arrivata, dall’altra un album come “St. Anger” (2003), la cui “violenza non filtrata, istintiva” avrebbe dovuto riaccendere la fiamma di una destabilizzante urgenza, non ha certo aiutato la causa della band. Ok, “St. Anger”, brutto che sia, non si può confondere con “Load” o “Reload”, ma, giratela come volete, sono 32 anni circa, dal 1991 grosso modo, che i Metallica litigano con il concetto di “identità”. Chi sono davvero? Sono, in fin dei conti, una thrash band che ha avuto un’unica vera colpa, quella di invecchiare? O sono invece un gruppo di predestinati che, quasi fortuitamente, negli anni giovanili, hanno definito i contorni di un intero genere (il thrash) per poi tornare ad essere “soltanto” ciò che forse sono sempre stati, ossia una heavy band in senso lato? Saranno anche pugnette, gente, ma è la carriera dei Metallica ad imporci questi dubbi. Quale metal band – o quale rock band, in generale – si è messa a nudo con egual ferocia? “Some kind of monster”, documentario del 2004, ci sbatteva in faccia la vita rotta e interrotta di James Hetfield nel contesto microcomunitario di una band. Risultato: scatti, urla, discussioni in odor di rissa. Tutti con i nervi scorticati. Questioni di ego troppo ingombranti in rotta di collisione? Non solo. Questioni, ancora una volta, di identità: siamo ancora una band? E se sì, che band siamo? Siamo quelli che si trastullano con le orchestre classiche o quelli che ogni tanto scavano nelle proprie origini (tutte le registrazioni, ad esempio, di “Garage Inc.” datate 1998) per ritrovare i filamenti smarriti del proprio dna? Siamo entrambe le cose o siamo qualcos’altro ancora, magari – oddio! – quelli di “St. Anger”? I Metallica si sono dati qualche silenziosa risposta – nel senso che l’album non venne anticipato da alcun manifesto filosofico – a partire da “Death magnetic” (2008), primo di tre dischi in studio (tralasciamo l’assurdo “Lulu” con Lou Reed) che hanno avuto la funzione di definire la comfort zone dei Metallica versione “pienamente adulta”.
“72 seasons”, terzo album del trittico, è quello che, come un bambino che cresce, non la smette di chiedersi perché. Perché, alla fine, siamo così? Perché siamo questi? Perché abbiamo tutti avuto 18 anni, tutti attraversato 72 stagioni che, sartreianamente, ci hanno costruito e soggiogati. Perché la gioventù, anche nell’ottica della formazione musicale, può essere sublime trionfo ma sottile condanna. Ci piaccia o meno è con lei che ce la vedremo finché avremo la faccia di Hetfield, che nelle ultime foto “promozionali” sfodera la ghigna calpestata di un 70enne. O quella di Hammett, che sembra sull’orlo di un esaurimento nervoso o sul punto di scoppiare a piangere. Volti forse photoshoppati al contrario: più rugosi e stropicciati di quanto dovrebbero essere. Come a dire: è la vita, quella che ci portiamo addosso e quella che ci sconquassa dentro. “72 minutes”, coerente con questa sofferta intuizione, è un tour de force di circa 70 minuti in cui quattro metalheads destinati ad entrare presto nell’ultimo terzo della propria terrena esistenza suonano qualcosa che già conservavano nel cuore prima della maggiore età: heavy metal. Heavy “fuckin’” metal. Non diabolicamente necessario come nel 1983, ma chissenefrega. Jean-Paul Sartre scriveva: “I nostri pregiudizi, le nostre idee, le nostre credenze sono per la maggior parte di noi insuperabili perché sono state provate innanzitutto nell’infanzia; è la cecità infantile, il prolungato sbigottimento a rendere conto – in parte – delle reazioni irrazionali, delle resistenze alla ragione. Ma che sarebbe mai, appunto, questa infanzia insuperabile?”. Togliamo ora la parola a Sartre e proviamo a rispondere ascoltando “72 seasons”: questa infanzia insuperabile forse è solo un cerchio che viene a chiudersi tardi, una volta che siamo totalmente, inequivocabilmente, adulti. Senza più crolli nervosi dietro l’angolo. Pacificati. Anche se suoniamo o ascoltiamo fiero, non adulterato e talvolta prolisso heavy metal.