Giovani abbastanza per la visione ultra pop di Tim Burton, ma cresciuti troppo per il distaccato machismo di Christopher Nolan, avevamo bisogno, noi nati nel cuore degli anni ‘80, del Batman grunger, dubbioso, tormentato, umano troppo umano di Matt Reeves. Non chiamateci Millennials, eppure non facciamo parte neanche della Generazione X. Siamo lo scarto tra due fotogrammi della storia, i bambini troppo piccoli per il Muro di Berlino, ma abbastanza grandi per testimoniare l’orrore del nuovo millennio. Questo Batman è per noi che giocavamo con la Batmobile del primo film di Tim Burton. Tre anni fa il Joker di Todd Phillips sembrava creare uno spartiacque, un anno zero su come dovevamo concepire i cinecomics da quel momento in poi Non sono del tutto d’accordo. L’ormai dimenticato e sotterrato Spider-Man di Sam Raimi aveva donato al timido Peter Parker una dimensione umana, così come la serie Smallville (entrambi usciti nei primi anni Zero) inquadrava il giovane Clark Kent in tutte le contraddizioni di un adolescente. Questo retroterra umanistico dei supereroi è stato presto dimenticato dalle major per fare cassa saturando il mercato negli ultimi vent’anni. Fortunatamente Philips ha invertito la rotta e Reeves ha imparato la lezione. La sua Gotham City è cupa quanto un film di Shinya Tsukamoto, gelida quanto un film di David Fincher, e possiede la sconfitta spirituale di Taxi Driver.
Matt Reeves alza il tiro ricordando al pubblico che a differenza degli eroi della DC comics (di cui fa parte) o della Marvel, Batman è solo un essere umano, e i suoi ‘poteri’ sono frutto di una grande forza di volontà e della tecnologia che grandi risorse economiche possono offrire. Non è un caso che, per ben due volte, in scene da monologo confessione, fuori campo passi ‘Something in the Way’ dei Nirvana; una delle canzoni dove, in fase di registrazione con Kurt Cobain sdraiato con la chitarra in mano, si coglie tutto il potenziale spettrale che ci lasciava in eredità una generazione. Spettrale come questo Batman che si dichiara l’ombra su Gotham City, dove il Bat-segnale non significa S.O.S, ma una minaccia che si concretizzerà sulla pelle dei criminali.
Robert Pattinson, come il resto del cast (ma ci arriveremo più avanti), non delude. È scafato, un bellissimo perdente, piegato dall’ombra dei padri (anche dei suoi antesignani cinematografici), ha quasi scritto ‘suicidal’ sulla fronte ma non se ne vergogna. È un Batman ai primi vagiti che vaga per una città devastata (Sodoma e Gomorra spostatevi) da un paio d’anni, aiutato unicamente da Alfred, qui interpretato da un meraviglioso Andy Serkis, e proprio come una nascita, che è sempre dolorosa, la prima nemesi è l’Enigmista (Paul Dano). L’Enigmista, in versione povera da sadomaso creepy, che qui ha tutte le caratteristiche di un serial killer all’epoca dei social. sta eliminando uno a uno tutti i personaggi importanti della città accusandoli, anche giustamente, di essere dei bugiardi. La città di Gotham City è sempre stata protagonista tanto quanto Batman, una Twin Peaks ante litteram dove la speranza non sembra contemplata. Nel film rispetta il suo status di comprimaria diventando un peso più che un aiuto, una città da purificare (cosa che proverà a fare qualcuno) in barba anche agli innocenti, perché di innocenti, anche nei posti che sembrano l’inferno, ce ne sono sempre.
Non è casuale che la colonna sonora, Nirvana a parte, sia un eco, grazie a Michael Giacchino, di Star Wars (Marcia imperiale in particolare): tutto porta a un vicolo cieco e quel punto cieco che Bruce Wayne non riesce a vedere riposa nel suo stesso passato. È significativo che, oltre in Joker, la figura di Thomas Wayne non sia del tutto chiara, ma piena di sfumature. I padri hanno delle colpe che ricadono inevitabilmente sui figli. C’è poi tanta differenza tra Batman e l’Enigmista? Sono entrambi due orfani, uno è certamente privilegiato, ma il senso di disgusto, spaesamento e rabbia di fronte a una orribile realtà è la stessa. I personaggi di The Batman non sono caricaturali come quelli di Burton, ma riportati a una dimensione realistica (molto più di Nolan). Il Pinguino di Colin Farrell ha l’aspetto di un medio uomo d’affari, sgradevole il giusto, ma tangibile e protagonista di una delle poche scene d’azione del film. The Batman dura quasi tre ore eppure, benché sia stato criticato per questo, non si patisce la mancanza dell’azione fine a se stessa; l’azione c’è ma è risolta in una dimensione più noir poliziesca, più preoccupata a scoprire l’origine dei suoi personaggi.
Carmine Falcone è un aggiunta pregevolissima (ovviamente il grande John Turturro), una figura di spicco sia in termini di scrittura che a Gotham, un boss mafioso che è ben più scaltro di molti nemici che Batman nell’universo espanso ha dovuto affrontare. Zoë Kravitz è Selina Kaye, forse la Catwoman più convincente dall’epoca della serie anni ‘60, un perfetto mix tra Julie Newmar ed Eartha Kitt, ma è altro ancora: Catwoman è un personaggio tormentato, ambiguo come lo stesso Batman, una figlia che piange suo madre e cerca vendetta. In The Batman gli adulti, escluso Alfred e il tenente James Gordon (Jeffrey Wright, Westworld) sono un contingente nemico da abbattere, perché se la situazione attuale è tanto disastrosa è colpa della generazione che ci ha preceduto. Purtroppo l’embargo alla Russia impedirà la visione in quel Paese. Un peccato, perché forse avrebbe aiutato anche Putin a perdonare a andare avanti nonostante gli errori del passato. Batman, Selina o l’Enigmista sono i ragazzi dimenticati dal mondo, ognuno con una rabbia in piena metastasi a meno che uno di loro non capisca che, forse, è ora di voltare pagina, fare tesoro degli errori dei ‘padri’ e guidare le future generazioni verso il futuro, finché ne abbiamo uno.
“Just because you’re paranoid don’t mean they’re not after you”.
Territorial Pissing, Nevermind, Nirvana