Oggi parlo del primo disco solista di Tommaso Paradiso.
Ho sempre portato i capelli lunghi. Ovviamente quando ero piccolo, un bambino, prima, un ragazzino, dopo, avere i capelli lunghi significava averli non corti, cioè più lunghi degli altri. Sono riccio, non ho mai avuto i capelli rasati, per intendersi, e per far vedere i boccoli, quando ero piccolo ancora li avevo, mia madre me li ha sempre lasciati portare fin quasi alle spalle. Da che poi sono cresciuto, e quindi ho iniziato a avere l’idea di lavorare su un mio look, dapprima in maniera inconscia, poi un filo più consapevole, i capelli sono cresciuti a dismisura. Credo di non averli tagliati per una decina d’anni, a un certo punto, negli anni Novanta, da che cioè non c’era più il vincolo del dover essere accettato dalla classe insegnante del liceo. Sono riccio, quindi dieci anni di capelli non tagliati non significa che io sia diventato una specie di Rapunzel, più che altro avevo i capelli molto lunghi, fino a metà schiena, anche qualcosa di più, non a caso venivo spesso confuso con Kim Thayil dei Soundgarden. No, venivo confuso con Kim anche perché ho la carnagione olivastra, credo lui sia di origini libanesi o una cosa del genere, e perché oltre che i capelli lunghi, da un certo momento, ho cominciato a farmi crescere anche la barba, altrettanto lunga.
Mia madre, sempre lei, mi ha più volte chiesto, con l’insistenza di una madre e l’amorevolezza di una madre di tagliarmeli, allora, continua a farlo anche oggi che ho cinquantadue anni, figuriamoci, “visto che devi fare questa cosa (aggiungete voi una qualsiasi cosa che preveda che qualcuno di guardi, si tratti di televisione come di andare a fare la spesa) perché non ti dai una ordinata”, dove per ordinata si intende appunto tagliare i capelli così che possano essere in qualche modo pettinati, nel modo che l’essere ricci prevede, e una tosata alla barba affinché tu non appaia come una sorta di serial killer di quelli che animano certe serie tv scandinave. Me lo chiedeva con insistenza negli anni novanta, aggiungendo qualcosa che indicasse una mia imminente debacle, “Tanto appena inizierai a lavorare dovrai tagliarteli”. Ignorava, mia madre, e anche io, che nella vita avrei fatto un lavoro che non solo non contemplava io dovessi tagliarmi e pettinarmi i capelli, ma nel quale, almeno per certi aspetti, avere i capelli lunghi, essere “strano” e quindi riconoscibile, facesse parte del lavoro stesso. Nei fatti non li ho tagliati il giorno del mio matrimonio, dove in effetti un po’ tutti pensavano li avrei tagliati, per farli in qualche modo combaciare con l’idea che, per una volta, io indossassi un abito molto elegante e la cravatta, fatto, questo della cravatta, che non si sarebbe mai più ripetuto in vita mia, vedi alla voce “capelli e lavoro”. In quell’occasione li feci acconciare dal mio barbiere di fiducia, un amico di vecchia data che, fosse stato per me, a quest’ora sarebbe morto di fame, in una lunghissima treccia che mi arrivava fin quasi al sedere. Stavo oggettivamente bene, quindi nessuno ebbe da ridire, e quando, neanche sei mesi dopo, li tagliai drasticamente, corti per la prima volta da una decina d’anni, la cosa suonò quasi come un gesto irriverente, non li avevo tagliati quando tutti in qualche modo se lo aspettavano e lo avevo fatto di mia spontanea volontà quando nessuno se lo aspettava. Il fatto è che mi sono sposato nel 1999, e l’ultimo dell’anno, quello del famoso Millennium Bug, sembrava necessitare un gesto epico.
Così, mentre i miei amici per festeggiare il passaggio di millennio si dipingevano i capelli con una bomboletta spray blu, convinti di rubare la scena alla festa alla quale avremmo partecipato, io mi andavo a tagliare una quarantina di centimetri di capelli, battendo tutti in effetti speciali. Da quel momento, ogni tot, me li taglio, senza una logica precisa, quando ne ho voglia, quando penso che si siano rovinati troppo, quando me lo chiede uno dei miei figli, ma in genere li porto abbastanza lunghi. Del resto, sono riccio, mia moglie è riccia, i nostri quattro figli sono ricci, l’idea che in casa non ci siano tutti questi pettini è abbastanza naturale. Anni fa, però, quando la nostra primogenita era poco più di una neonata, è successa una cosa legata ai capelli e ai capelli lunghi, che è entrata di diritto nei momenti epici della nostra famiglia.
Lucia, così si chiama, se siete tra quanti leggono le pagelle padre e figlia di X Factor lo sapete, era la nostra amata prima figlia, lo è ancora, anche se adesso di amati figli ce ne sono altri tre. All’epoca avevamo solo lei, e contravvenendo a qualsiasi indicazione su come crescere i figli, giovani sposi innamorati della nostra piccola bambina e anche dell’idea di non doverci alzare troppe volte per notte, Lucia dormiva nel lettone con noi, in mezzo a me e mia moglie. Considerate che all’epoca vivevamo in una strana casa, settantacinque metri quadri, divisi in due sole stanze più bagno. C’era una stanza che fungeva da cucina e sala, unite, e una enorme camera da letto, con letto matrimoniale a soppalco. La parte sotto il letto, cui si accedeva da una scala fatta da cubi che erano anche una libreria, era occupata in parte da un armadio piuttosto profondo e in parte praticabile, e noi ci avevamo messo il box, che in seguito Lucia avrebbe usato. Ancora non camminava. Fosse stata nel lettino, che in effetti c’era e si trovava nella stanza, avremmo dovuto alzarci e scendere le scale nella notte, quando si fosse svegliata per mangiare o altro. Meglio farla dormire con noi. Era anche allora una amante del sonno, per cui capitava che il sabato si poltrisse a letto fino quasi a mezzogiorno, io ovviamente sveglio da una decine d’ore, sono insonne, ma almeno mia moglie e lei potevano riposare.
Lucia, quindi, dormiva in mezzo a noi. A darci una mano durante il giorno c’era una signora salvadoregna, Angela, la nostra baby sitter. Io al tempo lavoravo a Tutto Musica, e andavo spesso in redazione, mia moglie lavorava in ufficio. Un giorno Angela mi dice che Lucia ha qualcosa di strano a un dito. Lo dice in quella maniera tutta particolare che spesso hanno di parlare i centro o sud americani che vivono in Italia, con una buona conoscenza della nostra lingua, certo, ma in qualche modo fregati dal fatto che spagnolo e italiano si somiglino, quindi infilando qualche parola a caso dentro il discorso, finendo quindi per renderlo eccentrico e suggestivo, ma non di semplice comprensione. Non sto facendo bullismo o praticando razzismo, intendiamoci, a Angela ai tempi avevamo affidato la nostra amata primogenita, faccio cronaca. Quindi Angela mi dice questa cosa, ma me lo dice, non ricordo i dettagli, sbagliando qualcosa, e io sulle prime ovviamente non capisco. Angela insiste, preoccupata. Quindi, siccome in genere Angela era una placida signora di mezza età, i lineamenti delicati da nonna, seppur nello specifico fosse una tata, decido di tornare a casa a controllare. Scopro così che ha l’indice della mano destra gonfio, in maniera singolare. Non è tutto gonfio, infatti, ma è gonfio nella punta, da una precisa linea che circonda tutto il dito, come una sorta di confine. Da una parte c’è gonfiore, il rosa che diventa rossastro, quasi violaceo, dall’altro niente, tutto regolare. Prendo una lente di ingrandimento, per capire, e scopro che c’è qualcosa che strozza il dito. Non capisco cosa, ma è evidente che c’è qualcosa che lo sta strozzando. A occhio mi sembra un capello, sì, un lungo capello nero, quindi mio. Mi viene da ridere, un capello che strozza la circolazione di un dito di una neonata, manco a E.R. si è mai vista una cosa del genere, penso, e se dico E.R. e non Grey’s Anatomy è solo per precisione storica, siamo nel 2002.
Provo a tagliare il capello, con un paio di forbicine di quelle che si usano per tagliare le unghie, e scopro una verità piuttosto sconcertante: se un capello strozzo una dito, più provi a tagliarlo, più il capello si insacca nella pelle. Ma soprattutto, scopro che il gonfiarsi del dito non fa altro che rendere il capello irraggiungibile, sepolto nella carne che va via via occupando più spazio. Mi preoccupo, quindi chiamo mia moglie e appena arriva corriamo al Pronto Soccorso dell’ospedale per bambini. Facciamo il triage e lì ci mandano di corsa in uno degli ambulatori, a riprova che di faccenda seria si tratta. In realtà, ci dice l’anziana dottoressa che abbiamo davanti, è sì pericolosa la faccenda, perché il mancato circolo del sangue nel dito, alla lunga, ma neanche troppo alla lunga, avrebbe portato a cancrena o una cosa del genere, vado a memoria, è quindi una faccenda sì pericolosa, ma è più che altro rarissima. Lei, l’anziana dottoressa, i capelli che mostra sono tutti bianchi, ha studiato la cosa sui manuali, all’università, ma in quasi trentacinque anni di Pronto Soccorso non ha mai visto un caso del genere. Pensa te che fortuna, mi viene da dire, ma mi astengo dal farlo. Immagino, per malizia, la cosa finirà nel librone delle faccende strane che capitano nei Pronto Soccorso, ogni tanto si legge di qualcosa di bizzarro anche sui giornali, roba tipo quelli che si infilano cose strane nel sedere, tipo l’attore famoso e hollywoodiano che ci si è infilato un criceto, o gente che rimane bloccata in posizioni anomale. Ora ci sarà anche il mio lungo capello che strozza il dito di mia figlia di neanche un anno. La cosa del capello che strozza la carne ha ovviamente un nome scientifico, qualcosa che deriva altrettanto ovviamente dal greco, e che, ho fatto il classico, suppongo abbia per suffisso “trico” o qualcosa del genere, ma col tempo ho rimosso questo dettaglio.
Nei fatti, siamo arrivati alla fine dell’aneddoto, la dottoressa non sa esattamente come procedere, e alla fine decide di praticare un taglio con un bisturi sul dito di Lucia, in verticale, così da tagliare il capello a metà e permettere, con delle pinzette, di sfilare il resto del capello dal solco che ha ormai scavato in quella giovane carne. Una cosa dolorosa, che però le è possibile solo in virtù di una piccola anestesia locale, praticata con una punturina tipo quelle che ci fanno i dentisti sulle gengive. Dito salvo, impacchettato, il tempo di tornare a casa e sono corso da un barbiere a me sconosciuto a tagliarmi i capelli, non sia mai che io sia causa di dolore a mia figlia per una mera faccenda estetica.
Tommaso Paradiso è riccio, seppur non crespo. Ho premesso dicendo che oggi avrei parlato del suo primo album solista, "Space Cowboy", e che ci crediate o meno è di "Space Cowboy" che ho parlato, seppur intrattenendovi su un particolare episodio del mio passato che ha a che fare coi miei lunghi capelli ricci e con il ditino innocente di mia figlia Lucia.
Quando le cose non girano, non girano più, mentre stai provando a togliere un capello che sta incredibilmente strozzando il dito di tua figlia piccola o quando la tua carriera comincia a essere un imbarazzante filotto di brani sempre meno riusciti e sempre meno seguiti da quello che un tempo pensavi fosse per sempre il tuo pubblico, non c’è altra soluzione che incidere in maniera radicale con un bisturi, a costo di provare al momento anche un po’ di dolore.
Accanirsi con pinzette e lenti di ingrandimento, come con certo pop usurato che provi a spacciare per ancora attuale, la superficialità che si può permettere solo chi è profondo, e ha azzardato motivetti sempre più scialbi, non serve a niente, e alla lunga può portare solo a una cancrena.