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Prima di SanPa: l'altra docu di Cosima Spender
che merita di essere vista

  • di Ray Banhoff Ray Banhoff

5 gennaio 2021

Prima di SanPa: l'altra docu di Cosima Spender che merita di essere vista
La regista è sempre Cosima Spender. Così come dopo Sanpa non assocerete più il nome di una comunità a un fatto di cronaca, dopo Palio non vedrete più la manifestazione come una gara in costume. A quel punto farà parte del vostro immaginario collettivo

di Ray Banhoff Ray Banhoff

Quando un regista produce un lavoro come Sanpa rischia di essere ricordato solo per quello. Ma non in questo caso, visto che Cosima Spender aveva già diretto Palio, nel 2015.

Meno conosciuto e meno chiacchierato, immeritatamente diremo noi, Palio è un lavoro (il quarto per la Spender) pazzesco che potete vedere sempre su Netflix.

Se in Sanpa la regista ha fatto venire fuori i lati oscuri di Muccioli e dei suoi metodi, sei anni fa con Palio dipingeva per la prima volta un quadro del Palio di Siena che non fosse la solita messa idilliaca che la RAI ogni anno manda in onda.

Perché per i non toscani il Palio è quell’appuntamento folkloristico che vedono in televisione una volta all’anno. Quella corsa in costume con i cavalli imbizzarriti che ogni volta la Rai manda in onda e si devono aspettare decine di minuti e false partenze prima di vedere i cavalli allineati. Per i senesi invece il Palio è una ragione di vita, la contrada a cui si appartiene una fede, su di esso si reggono le radici, l’economia, i segreti di Siena.

Nel 2015 la regista dichiarava a Repubblica: «Non ho voluto fare un film etnografico sulle contrade, volevo concentrarmi sui fantini. Sono considerati soldati di ventura, mercenari, più abili a piedi che a cavallo. Non possono essere sinceri, perché tutti sanno che al Palio la corruzione è lecita. I fantini sono al centro di un gioco di relazioni, alleanze e denaro che arriva fino al momento della partenza, della “mossa”, del Palio”».

Corruzione non è una parola fuori luogo, il Palio muove un giro di scommesse, investimenti e speculazioni non indifferente.

Non era scontato fare un film di denuncia facendo parlare i protagonisti che di solito alimentano i segreti ed estromettono ogni estraneo dai fatti della contrada. La Spender c’è riuscita perché a Siena è legata da tempo, la conosce, la può raccontare, ne fa parte.

Figlia di due artisti è nata e cresciuta nelle campagne attorno alla città, da ragazza ha fatto le scuole a Siena per poi emigrare su Londra. È diventata regista, ha passato molti anni in Africa e poi ha sentito l’esigenza di tornare alle sue radici. Era troppo potente la storia che aveva in mente di raccontare, troppo invitante.

Pensato e nato per il cinema, Palio è un docu-film, la cui tecnica di narrazione è simile a quella di Sanpa e non ha caso in entrambi i lavori il montaggio è di Valerio Bonelli, marito della Spender già premiato al Tribeca Film Festival e già coinvolto in produzioni gigantesche come il cult Il Gladiatore.

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Il Palio di Siena

La colonna sonora è a metà composta da brani di Alex Heffes e per metà di Morricone. Suoni che rendono per una volta dignità alla dimensione elettrica della violenza tra sfidanti, i fantini, piuttosto che scimmiottare l’estetica western dei cavallerizzi. Qui non c’è il west, non ci sono i cowboy, qui siamo nel medio evo delle credenze, dei voti, della forza bruta. Qui c’è Trecciolino, ovvero Luigi Bruschelli, leggenda del Palio che proprio l’anno scorso è stato condannato in primo grado a 4 anni e 10 mesi per fatti legati agli scambi di cavalli e per il reato di falso. Non sono da meno le vicende di Bastiano, ovvero Silvano Vigni, fantino negli anni 70 e 80, con tanto di immagini di risse, trionfi deliranti, gente che gli strappa i vestiti e gli promette milioni di lire e minacce di morte in caso non vinca.

Sebbene la Spender non abbia mai rilasciato una dichiarazione scomposta sul Palio e abbia sempre dichiarato il suo amore viscerale per l’Italia e questa manifestazione, non si può dire che Palio sia un film marchetta. Anzi. Con la stessa tecnica di indagine su Sanpa dipinge una Siena cupa, più vicina alla città degli intrighi nella quale è morto il responsabile della comunicazione del Monte Paschi di Siena, David Rossi, in circostanze ancora da chiarire, che la città d’arte osannata da Philippe Daverio e Vittorio Sgarbi.

A un certo punto del documentario una spettatrice si gira verso la telecamera con aggressività. Si tratta di un momento cruciale, lei e altre persone sono affacciate a una finestrella che dà su Piazza del Campo, poco prima della corsa. L’adrenalina è alle stelle, la tensione palpabile, lei con un gesto da hooligan va incontro alla telecamera, sembra mangiarsela, poi declama solo: «a Siena siamo tutti matti».

Non che sia vero, ma di certo il Palio è un fenomeno irripetibile, che descrive un’appartenenza, un fervore che va oltre l’agonismo.

Così come dopo Sanpa non assocerete più il nome di una comunità a un fatto di cronaca, dopo Palio non vedrete più la manifestazione come una gara in costume. A quel punto farà parte del vostro immaginario collettivo.

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