Ryūichi Sakamoto. A 71 anni nella natia Tokyo - era nato il 17 gennaio del 1952. In piena Giappone post-bomba atomica - se ne è andato un signore. Sì perché, innanzitutto, Sakamoto era un signore. Della musica e della recitazione. Di questi tempi un necrologio non lo si nega a nessuno - così come un libro, una regia, cinematografica, lirica o teatrale - così come aggettivi ed iperboli. Il mio primo impatto con lui e il gruppo che guidava - la Yellow Magic Orchestra - avvenne al Teatro Olimpico a piazza Gentile Da Fabriano e fu funestato da parecchi incidenti tecnici - saltò più volte l'elettricità al che dissi, scatenando l'ilarità dei colleghi presenti, “a rega', si va via 'a luce so' finiti” che, per un adoratore come me di Terry Riley, La Monte Thornton Young e Alvin Curran, non fu una bella uscita. Appartato, elegante, profondo conoscitore di cosa suonava e per cosa lo suonava, sposato con la paffuta Akiko Yao, padre di Miu, anche lei cantante e musicista, aveva vinto l'Oscar per le musiche de L'ultimo imperatore di Bernardo Bertolucci, scritto innumerevoli colonne sonore, abitato a New York in un appartamento minimalista, recitato - il suo sadico ufficiale nipponico in Merry Christmas interpretato da David Bowie e diretto da Nagisa Ōshima - e vissuto.
Silenzioso come tutti i grandi, al film Coda, girato a New York qualche anno fa, aveva affidato i suoi pensieri di vita. E di morte, visto che era già stato colpito dal tumore alla gola. Aveva collaborato con molti - Marco Molendini, sapientemente, ha ricordato anche il maestro brasiliano Antônio Carlos Jobim - e i suoi dischi, da solista e con la Yellow Magic Orchestra, sono tutti capolavori di musica contemporanea. I suoi marchi di fabbrica, se così vogliamo dire? La rarefazione e il silenzio, che sono sempre ben presenti. Un grande uomo, un grande musicista. Uno che faceva stare bene col mondo. Buon viaggio, signor Sakamoto. Sarà una risata che li seppellirà.