Questa volta Jöel Dicker si è proprio incartato. Succede quando un romanzo viene costruito complicandolo via via. Alla fine i nodi vengono al pettine e non tutti si possono sbrogliare. Un animale selvaggio (La nave di Teseo, 2024), ottavo romanzo dell’autore svizzero, il secondo ambientato nel suo Paese e in parte in Francia, tradisce infatti, dietro un incalzante page turner, per cui le pagine sembrano girarsi da sole in mano al lettore immedesimato, una struttura di romanzo a vista, sicché gli sviluppi nascono non seguendo una traccia di partenza ma secondo l’andamento intrapreso, come lo stesso Dicker ha del resto ammesso. Così facendo, si ha invero la massima libertà di introdurre personaggi e aggrovigliare a piacimento l’intreccio, caricandolo oltre misura di suspense e di circostanze lasciate aperte in un gioco basato sul sistematico rinvio dello scioglimento, ma prima o poi, superata la metà del libro e dovendo fare i conti con i nodi della storia imbastita, il dénoument deve necessariamente arrivare e se non è all’altezza delle attese promesse, cioè del grado di complicazione creato, si muta in una caduta, un esito paradossale o contraddittorio, molte volte camuffato dietro spiegazioni puerili e risibili, oppure in una leva di nuovi rilanci e di conseguenza nel ripetersi di più rovinosi rovesci. Vediamo i personaggi. Sophie, quarantenne, è un angelo che seduce tutti, anche le donne, forte di un fascino apparentemente congenito e naturale. È un’avvocatessa che gode della stima generale e che con la sua grazia ha conquistato come cliente il primo tycoon di Ginevra. Moglie e madre inappuntabile, figlia adorabile, amica devota, donna esemplare, pian piano rivela tuttavia, per ragioni di adattamento alle quali l’autore la piega senza farsi problemi, torbidi della propria personalità (una lunga relazione extraconiugale, l’impudenza nel riciclare denaro sottratto al fisco pur di comprare la villa dei sogni, un padre evasore impenitente e tollerato, la pronta disponibilità a rilasciare fatture false, la dotazione in camera da letto di frustini, dildo e manette…) del tutto incompatibili con il suo carattere (se ne ha uno), fino a risultare addirittura una imprendibile e recidiva rapinatrice, affascinata sin da ragazza dal crimine. Hai visto mai?
Al momento di pagare un prezzo a un colpo di scena, Dicker la rimodula nell’idea di una “criminodipendente”, sindrome del tutto sconosciuta soprattutto in una donna: in sostanza dobbiamo credere che Sophie, benché sposata e madre di due figli piccoli, sia legata anche sessualmente a Fauve, un pericoloso rapinatore ovviamente bellissimo, perché è visceralmente attratta dal brivido che le procura la perpetrazione di rapine, per modo che può confessare al marito Arpad: “Mi dà delle sensazioni che tu non potrai mai darmi. Io posso stare con te e sentirmi appagata con te perché c’è Fauve”. Il quale Fauve la cerca, passati alcuni anni da un colpo, innanzitutto come complice per nuovi assalti a banche e gioiellerie e nell’occasione per trastullarsi con il fervente trasporto che lei non gli nega. Tenendosi in precario equilibrio sull’equivoco, Dicker propone una Sophie innamorata di due uomini e incapace di scegliere, per poi svelare che il legame con Fauve è ben più materiale, frutto di una dipendenza non nota alla scienza se non forse come variante degenerata della cleptomania. Ci fa credere per lungo tempo che le lettere di Fauve a Sophie del tipo “Sanremo non può essere stata la nostra ultima volta” siano di carattere amoroso, salvo infine rivelarci che si riferiva all’ultima rapina compiuta insieme. Dal canto suo Fauve (che ben poteva Sophie scegliere anche per marito una volta che Arpad era scomparso, così da fargli da Eva Kant) è un personaggio altrettanto mutante e alla fine indistinto: come uomo è innamoratissimo di Sophie, ma non fa niente quando può per averla solo per sé anche fuori dal letto - anzi, dovendo scegliere, preferisce avere tutto il bottino e rinunciare a lei; come bandito è un professionista di fama europea che pianifica ogni dettaglio e che non lascia, come sottolinea l’autore, nulla al caso, senonché dice ad Arpad: “Ti ho dato quell’appuntamento senza nemmeno sapere perché. Non so cosa mi passasse per la testa, è servito solo a creare ancora nuove complicazioni”. In questo caso Dicker, molto più del suo Fauve amante delle cose che si incastrino perfettamente, anche se poi risultano accrocchi, non riesce a trovare alcun punto di coerenza con l’insieme e lascia che il suo valente rapinatore appaia un dilettante, svuotandolo così di appeal. Poi c’è Arpad, il brillante bancario da sei mesi disoccupato all’insaputa di tutti, compresa la moglie Sophie. Un campione di incongruità. Finisce in galera, dove conosce Fauve, per una questione di una banalità inimmaginabile in Dicker, che suda a rendere plausibile: accusato di aver rubato un’auto, benché affidata a lui, va in prigione solo perché si intrattiene più tempo a cena con una sconosciuta che gli si nega da subito e per giunta gli fa pagare un conto che non può permettersi, quando chiunque avrebbe pensato innanzitutto a non passare per ladro che passare una serata inutilmente. Ancora: Fauve gli ingiunge di lasciare immediatamente Saint-Tropez vietandogli anche di informare Sophie con cui ha avviato una promettente relazione e lui obbedisce, sebbene non ci sia alcun motivo per scappare e cambiare totalmente vita. Sparisce per la sola paura che gli incute colui al quale peraltro ha trovato lavoro ed è un amico? Un pavido dunque di buona cotta, che però poi si offre per compiere una rapina spericolata in una gioielleria! Poi: ha avuto un’offerta di lavoro da un amico che alla fine accetterà, quella di trasferirsi in Costa Rica, ma preferisce tacere alla moglie il licenziamento anziché parlarle dell’occasione da cogliere subito. Inorridisce all’idea di utilizzare, per comprare la villa, quelli che crede soldi sporchi ricevuti dal suocero e poi è artefice di un diabolico piano per riciclare quello stesso denaro. Non è finita. Quando scopre la tresca tra Sophie e Fauve, il quale lo vuole coinvolgere in una rapina (ma poi gli dirà di non avergli fatto il suo nome come complice: siamo alla commedia degli equivoci), troviamo una zeppa di questa portata: “Arpad non ne poteva più. Fauve doveva sparire. E perché non era stato capace di ucciderlo, gli avrebbe dato quello che voleva. Così gli disse: - Per la rapina siamo d’accordo. La farò con te”. Arpad si offre dunque come rapinatore ordendo di lasciare tutto il bottino a Fauve in cambio di Sophie perché non la cerchi più, così da liberarsi di lui, e si convince che Fauve accetterà perché ha “il senso dell’onore” e “avrebbe mantenuto la parola data”: senonché non c’è nessun elemento che possa portare Arpad a supporre tanto. Anzi, ci sono tutti quelli necessari per diffidare decisamente di Fauve.
Altro personaggio ai confini della credibilità è Greg. Ufficiale e prossimo comandante del Corpo speciale di intervento, rispettatissimo poliziotto delle “Teste di cuoio” e lui stesso uno con la testa sulle spalle, passa le sue albe appostandosi col cane davanti alla villa di Arpad e Sophie, guarda caso tutta di vetro, per vederla di nascosto seminuda essendone follemente innamorato. Non solo: ruba dal magazzino del Corpo una telecamera, penetra nella villa e la piazza di fronte al letto matrimoniale per vederli amoreggiare. Manco il più morboso degli stalker erotomani. Epperò senza questo espediente di dozzina il romanzo non si reggerebbe perché è decisivo. Altrettanto lo sono le cavatine del tutto arbitrarie come quelle del procuratore che decide tutto da solo, anche le intercettazioni telefoniche e i pedinamenti, senza un provvedimento del giudice, e dispone che i rapinatori siano presi in flagrante, col rischio perciò di mettere a repentaglio la vita di dipendenti e clienti della gioielleria, procedura che nessun protocollo consentirebbe. “Non abbiamo abbastanza elementi per fermarli prima” dice, quando invece di motivi per impedire la rapina ce ne sono in abbondanza. Dicker ama curare i dettagli ma è nei dettagli che cade: come quando fa dire a Fauve che per Sophie sarà facile entrare nella gioielleria gabbando la vigilanza, perché “nessuno sospetta di una donna”. Vero, ma quella donna è un volto noto a Ginevra essendo un avvocato di grido, per cui trovarsi invischiata in una rapina le attirerà non uno ma mille sospetti. Dovrebbe presentarsi con l’anello che Arpad le ha regalato per farlo riparare, distraendo i commessi mentre i complici agiscono, però poi l’anello lo troviamo in mano ad Arpad che mette in atto lo stesso piano, lasciandoci a chiederci come lo ha avuto dalla moglie, che è ignara del suo coinvolgimento nel colpo alla gioielleria. Gli inciampi non finiscono qui. Quando Sophie fa di tutto per convincere Arpad che non c’è stato niente con Fauve, lui le fa tutte le domande tranne una, inevitabile: che ci faceva nella stanza da letto dove lui l’ha vista da lontano con Fauve che teneva le manette in mano, quelle che loro due amavano usare per divertirsi? E poi, come fa Greg a meravigliarsi (non a fingere di meravigliarsi, come dovrebbe avvertirci l’autore) quando la moglie gli dice che Sophie ha l’amante se li ha visti insieme e ancora a sorprendersi (dovrebbe semmai dissimulare per non tradirsi) vedendo la foto di Fauve con il tatuaggio di una pantera sul petto se lo ha sentito parlare con Arpad proprio di quello? E lo stesso Greg come fa a trovare nella Biblioteca digitale del Quebec una copia del libro di un autore minore italiano, Carlo Viscontini (peraltro scritto, benché degli inizi del Novecento, nello stesso stile del Dicker di oggi), che è del tutto introvabile? Proprio in Canada e nel Quebec, dove si parla la sua lingua, l’inesistente autore si era forse fatto un nome? Il racconto di Viscontini che interessa a Greg si intitola “La Pantera” e narra di un cucciolo di pantera che cresce addomesticato con i cani (quantunque sia un felino, tanto da essere chiamato “Gattino”) ma che da adulto rivela la sua natura di belva selvaggia. Sia Sophie che Fauve si fanno incidere sul corpo una pantera intendendo qual è la vera natura di entrambi, nati per delinquere: sicché la Sophie che è un modello di virtù e qualità si trova di fronte all’interrogativo se in realtà non sia geneticamente una criminale - scelta per la quale opta l’autore sin dal titolo. Parliamo di una nosologica e grave forma di schizofrenia che dovrebbe indurre l’adorabile Sophie non a decidere, come fa, di compiere l’ultima rapina, quanto di rivolgersi in tutta fretta a uno specialista, visto che vuole uscire da quello stato di sdoppiamento della personalità e scegliere la normalità della vita.
Adottando ogni incongruenza, riesce facile a Dicker, abile nell’intramare intrichi e autentico ludi magister, a montare una formidabile macchina che procede per ribaltamenti di scena, capovolgimenti di prospettiva ed escalation di sviluppi. Ma anche in questo come nei precedenti romanzi la coerenza della narrazione e la tenuta dei personaggi sono poste al servizio evenemenziale della teatralità: non contano gli “effetti di reale”, ma la creazione moltiplicatrice di un’enfasi, limitata a ogni singolo episodio, che vale dunque per sé. Se anziché romanzi creasse dipinti, Dicker ci direbbe di goderci i particolari senza badare al quadro. La conseguenza è la messa a dura prova o sotto sforzo dei barthesiani codici sia ermeneutico che proairetico: vale a dire che Dicker costringe il lettore a fare ripetuti briefing personali a garanzia del mantenimento della suspense, da un lato tenendosi costantemente addetto alla ricerca di senso e da un altro riordinando in ogni momento le unità narrative per disporle in una propria sequenza logica e cronologica. Un gioco che, non permettendo distrazioni e disintegrando del tutto la fabula in un corpuscolare intreccio fatto di tantissime microtopie narrative, chiama il lettore a partecipare con impegno alla costruzione del romanzo, con la promessa o il rischio di farsi ognuno il suo. Un gioco però faticoso, abituale nella strategia dell’autore, ma stavolta portato a livelli parossistici, al solo scopo di innalzare sempre più la tensione. Siamo dunque spinti ad adottare un artificio benché un thriller debba entusiasmarci per la sua sola storia. La quale, se è davvero bella e ricca di suspense, non ha bisogno di essere condita con ficelles da scuola di scrittura e trucchi da giocoliere. In questo caso la storia in sé è in realtà alquanto elementare nella sua sola polpa ed eliminati i rivestimenti, segno che Dicker, essendone ben consapevole, ha voluto lavorare a un addobbo stracarico di elementi allotri che colpisse e alterasse i sensi. Alla fine è stato come averci invitato a tavola per una bistecca ai ferri servendoci poi una cotoletta con tanta mollica e poca carne, peraltro di secondo taglio. Ma dopotutto ha già fatto così sette volte.