“È difficile essere uno scrittore oggi?” abbiamo chiesto a Michele Masneri. “Citando Mussolini, visto che vi piace il politicamente scorretto, quando gli hanno chiesto: 'È difficile governare gli italiani?' Lui ha detto 'no, è inutile'. Io per il fare lo scrittore rispondo uguale: è inutile”. Dopo il successo di Steve Jobs non abita più qui (Adelphi, 2020) è uscito Paradiso (Adelphi, 2024) il nuovo romanzo del noto giornalista e scrittore. Nato a Brescia, ma vissuto prevalentemente a Roma e oggi brillante penna del Foglio, in Paradiso narra una storia che si sviluppa tra Roma – definita come “la Silicon Valley della decadenza”, ma anche la città delle “rovine fascinose” – e Milano, popolata invece dalla “nuova” categoria degli influencer, all’insegna dell’ostentazione e dell’esibizionismo. I protagonisti del romanzo sono Federico Desideri, un giovane giornalista intento a pensare a come sopravvivere al “disastro della carta stampata”, e Barry Volpicelli, un personaggio simile al Jep Gambardella de La grande bellezza di Sorrentino, ma “più vecchio, grasso, meno cinico e più rovinato dalla vita”, come lo stesso Michele ci ha detto. Lo abbiamo incontrato dopo la presentazione del libro presso la Triennale di Milano, sul palco con Luca Guadagnino e Carlo Antonelli, che a proposito del tema del giornalismo sviluppato nel libro, lo ha ironicamente definito come una storia “sulla politica del lavoro e sul precariato”. A poche settimane dall’uscita, Paradiso si è anche aggiudicato il Premio Cortina d’Ampezzo nella quattordicesima edizione curata da Francesco Chimulera, affermandosi come uno dei libri più interessanti e discussi dell’estate. Ne abbiamo parlato direttamente con l'autore in un’approfondita intervista senza filtri, dove oltre alla genesi del romanzo, ci ha detto la sua opinione su diversi temi: dal futuro del giornalismo, che oggi viene visto come un lavoro esotico da “allevatore di capre tibetane”, alle recenti polemiche sulla cosiddetta “Tele Meloni” e le sue “vittime”, come il caso di Pino Insegno; dall'idea di Biden, un “democristiano vero” e le elezioni americane, anche dopo la sua esperienza negli Stati Uniti (da cui però sappiamo importare solo “vaccate”), ai dibatti sulla cultura woke, la cancel culture e il politically correct, di cui ci ha fornito un’inusuale ipotesi: “Penso che ci vorrebbero vent’anni di dittatura woke in Italia”.
Michele Masneri, come mai questo titolo, Paradiso?
È il nome di una tenuta nel libro dove il protagonista, un giovane giornalista, finisce trascinato da un vecchio. C’è un po’ una storia da “Sorpasso”, come nel film di Dino Risi, perché questo giovane che viene trascinato da un vecchio affascinante, viene portato in un castello diroccato, che si chiama appunto ‘Paradiso’, anche se è anche un lugo di controsensi, perché è un’oasi incontaminata, ma è anche un ‘inferno’. Il personaggio di Barry e sua moglie hanno preservato questo luogo dall’orrore esterno, che è costituito dall’abusivismo edilizio, ma anche dal generico orrore della vita.
Qual è stata l’ispirazione per questo romanzo?
L’ispirazione mi è venuta durante la pandemia di Covid, stando a Roma. Roma in quel periodo era deserta, bellissima, ma anche inquietante. Cresceva l’erba alta in mezzo alle strade e tutto sembrava abbandonato. Forse Roma deserta non si vedrà mai più, però allora sembrava davvero un cumulo di rovine. Allora, mi è venuta l’idea di creare delle ‘rovine fascinose’ in cui le persone si rifugiano.
Quanto c’è di autobiografico nelle vicende del giovane giornalista protagonista?
Sicuramente un po’ c’è, perché anche io sono stato un giovane giornalista a Roma. Sono arrivato a Roma a fine anni Novanta, nel 1997, ma non pensavo né di viverci, né di fare il giornalista, perché in realtà studiavo altro.
Cosa facevi?
All’inizio studiavo a Gorizia, perché avevo la bizzarra idea di fare la carriera diplomatica (facevo Scienze diplomatiche). Era un’idea completamente mitomane e romantica: sognavo di fare l’ambasciatore-scrittore, tipo Stendhal, o Romain Gary… ma non capivo niente di relazioni internazionali. Gorizia era un posto estremo, con un solo cinema, sul confine, c’era la guerra in Jugoslavia vicina. Quindi dopo due anni e zero esami dati un amico mi invitò a partire con lui per Roma e accettai. Non ci ero mai stato, però inopinatamente avevo mio nonno che mi finanziava (ride). Quindi vado a Roma e mi laureo, finalmente, in Scienze politiche. Faccio due volte il concorso per la carriera diplomatica, ma mi bocciano entrambe le vote (fortunatamente per la Farnesina). Però la cosa buona è che adesso ho un sacco di amici ambasciatori nel mondo che vado a trovare.
Visto che hai amici ambasciatori e diplomatici, cosa pensi dei conflitti che stiamo vedendo in questo momento?
Non avrei mai pensato che ci sarebbe stata la guerra in Europa. Quando facevo l’università c’era la questione della Croazia e poi del Kosovo, era sì inquietante, ma non come quello che succede adesso. Era ancora un mondo che viveva nell’ “età della sicurezza”, come disse lo scrittore Stefan Zweig. Era un mondo in cui l’America comandava ancora, studiavamo di una Cina che si stava ancora risvegliando, il diritto internazionale funzionava e i russi stavano al loro posto. Anche l’Italia andava alla grande e nessuno avrebbe mai immaginato quello che è successo. Si parlava di “fine della storia”.
A proposito del tuo legame con Roma invece, dove è ambientato il libro, durante la presentazione avete definito Roma come “la Silicon Valley della decadenza”. Perché?
Sì, perché Luca Guadagnino (con cui è stato presentato il libro, nda), odia Roma. Io come ho detto da ragazzo non ci ero mai stato, ma quando sono arrivato, come il protagonista del romanzo, sono rimasto folgorato da quella bellezza: la luce, il modo di vivere un po’ pigro, ma anche la sua decadenza.
Già dalle primissime pagine c’è una comparazione fra Roma e Milano. Roma associata alla decadenza e questa sorta di “quadro grottesco” che hai creato, vuole forse dare un’immagine della decadenza e dell’esibizionismo che ci sono oggi nella società?
Quella di Roma è una decadenza vera, non esibita. Anzi alcuni personaggi sono persone che si trovano realmente a Roma, e vi “galleggiano”, in quel tipico modo di vivere: c’è il personaggio del principe impoverito, l’ambasciatore in pensione… A un certo punto arrivano anche alcuni influencer milanesi e allora lì sì, viene fuori l’esibizionismo. Ho voluto mettere in scena l’epitome del milanese di oggi, molto “sfolgorante”, ovvero l’influencer.
Cosa pensi degli influencer milanesi fighetti che ci sono oggi e che sbandierano tutto sui social?
Sono dei grandi personaggi della commedia all’italiana. Ci vorrebbe davvero Dino Risi per fare un film sugli influencer, o Paolo Virzì, forse lui è l’unico che potrebbe farlo oggi. Io ne ho intervistati un po’ di influencer in questi anni.
Qual è l’influencer che ti ha colpito di più?
Colpito in senso letterale l’Estetista cinica, perché mi ha martellato in testa per una famosa shitstorm. Però ne ho conosciuti tanti altri: Paolo Stella, Chiara Ferragni, sicuramente lei è quella che è più famosa. Mi affascinano anche quelli minori, più trash, tipo i TikToker napoletani.
Secondo te la Ferragni sta riuscendo a reinventarsi nella sua nuova immagine?
Adesso no, ma per me lo farà, in una forma diversa.
Tornando al libro, il personaggio di Barry Volpicelli è stato associato al Jep Gambardella de La grande bellezza. Secondo te è un’associazione giusta? Hanno qualcosa in comune oppure no?
Sì sicuramente. Poi quest’anno sono dieci anni de La grande bellezza, e diciamo che anche La grande bellezza pescava dalla Dolce vita, a sua volta, e racconta un po’ le stesse cose. A Roma è abbastanza inevitabile raccontare questo mondo di nobili decaduti, di personaggi del cinema e di cialtroni, perché prima o poi ci finisci dentro, e noi provinciali rimaniamo sempre affascinati. Poi a differenza di Jep Gambardella, Barry Volpicelli è più vecchio, è grasso, è meno cinico e più rovinato dalla vita.
Ecco a proposito di questa descrizione di “vecchio, grasso, rovinato dalla vita”, del tuo libro si è detto anche che è politicamente scorretto. Ti ci rivedi?
No. In realtà io sono un grande fan del politicamente corretto. Penso che ci vorrebbero 20 anni di dittatura woke in Italia, almeno per rimettersi in pari coi Paesi del primo mondo.
Quindi tu sostieni il woke?
In Italia sì perché non è mai arrivato. In America in certi contesti effettivamente c’è, è chiaro che se vai a Harvard o Princeton sarai avvantaggiato se sei albino e/o trans, ma in Italia non è mai arrivato nulla di simile. In Italia quelli che sono contro il woke pensano che woke sia il fatto di non poter più dire “fr*ci” e “neg*ri”, ma questo non è woke, è buona educazione che le nostre nonne davano già per scontata 50 anni fa. Dovrebbero provare veramente il woke per capire come si sta, poi cambierebbero idea.
Noi a MOW diciamo sempre che il politicamente corretto “ha rotto il caz*o”. Però, effettivamente, dalle battaglie che nascono sui social, soprattutto da alcuni influencer, non ritieni che in Italia ci siano cose woke?
È un woke all’italiana. Io dico sempre che adesso va di moda la parola “woke”, prima era “cancel culture”, ma siamo in un Paese dove niente viene mai davvero cancellato per sciatteria. Perché se vai a Roma, metà dei tombini hanno ancora il fascio del fascismo inciso sopra, qui a Milano c’è la stazione Centrale… Questo è un Paese talmente cialtrone - come dice anche il personaggio di Barry a un certo punto - che teme lo schwa ma non ha mai imparato a scrivere sauté di cozze correttamente; che non sa che affaire è femminile… o la differenza tra outing e coming out… ma che vogliamo cancellare? Quale dittatura del politicamente corretto si potrà mai realizzare?
Ovvero?
Se uno compra certi giornali in Italia, i giornali che io chiamo della destra terrapiattista, per esempio, leggi delle cose super omofobe per cui in America si va in galera, e insieme, denunce continue: non si può dire più niente! Mettetevi d’accordo. In Italia, abbiamo allo stesso tempo un livello di dibattito da bar di paese e la convinzione di vivere invece nella dittatura woke. Oltretutto è un business pazzesco questo del politicamente scorretto, perché su Amazon i libri sul politicamente scorretto sono dieci volte di più. Cioè Vannacci batte Judith Butler alla grande.
Cosa pensi del successo di Vannacci?
In Italia lo sport nazionale è saltare in soccorso del vincitore, e ora abbiamo il governo più a destra che ci sia mai stato, però la gente pensa che ci sia il woke, e quindi Vannacci prende 500mila voti.
Secondo te è vero che se Vannacci è stato eletto, è colpa di chi ha fatto pubblicità al suo libro, tipo le prime stroncature su Repubblica?
No, perché è un fenomeno talmente incredibile, che non si poteva non scriverne. Io penso che lui sia un “prodotto” di disinformazione russa perché è troppo “perfetto”, perché, a differenza di tanti altri, si ferma sempre un minuto prima di dire la cosa più allucinante e inaccettabile.
Dici che è “preparato” da qualcuno-qualcosa?
Sì. Lui in campagna elettorale ogni giorno diceva qualcosa di assurdo e impensabile, però lo faceva con delle parole talmente ambigue, che poteva poi fare marcia indietro. Non c’è mai la cosa esagerata. Se è lui che fa tutto da solo chapeau, anche se non so se sappia come si scrive.
È difficile essere uno scrittore oggi?
Citando Mussolini, visto che vi piace il politicamente scorretto, quando gli hanno chiesto: “È difficile governare gli italiani?” Lui ha detto “no, è inutile”. Io per il fare lo scrittore rispondo uguale: è inutile.
E invece essere un giornalista nell’era dei social e di Google?
È come essere un liutaio e un impagliatore di sedie speciali. Spesso mi chiedono “Ah, ma fai il giornalista, quindi scrivi proprio tutti i giorni?”. Io dico “Sì, sai, si chiama ‘quotidiano’”. Ma ormai ti vedono come se facessi, non so, l’allevatore di capre tibetane, un lavoro veramente esotico, e nessuno pensa che ci si possa più mantenere così.
Il personaggio di Federico Desideri nel libro, ha delle “belle speranze” sul suo lavoro da giornalista, ovvero pensa a come sopravvivere al “disastro della carta stampata”. Secondo te nel mondo di oggi le sue speranze sarebbero disilluse? Come sopravvivere a questo disastro?
È abbastanza impossibile. Lui poi è un giornalista a partita Iva, una categoria particolare di giornalisti e dello spirito, ci siamo passati in tanti, una categoria molto coraggiosa.
Noi sopravviveremo a questo “disastro della carta stampata” e dei giornali?
(Si rivolge a me direttamente): Ma tu, per esempio, perché fai questo e non invece un lavoro vero?
Perché ho già fatto altri lavori ‘veri’…
Quindi è proprio una perversione (ride). Però sai una volta il mio amico Jas Gawronski, giornalista e corrispondente e New York e Mosca per anni, mi raccontò di suo nonno. Suo nonno era Alfredo Frassati, fondatore de La Stampa e una volte, quando Jas gli disse che voleva fare il giornalista, rispose: “è un lavoro che sta finendo”, e lo disse già nel 1950 circa.
Quindi oggi il giornalismo è già finito?
Forse siamo arrivati talmente in fondo, che adesso rinascerà, in altre forme. È chiaro che la roba scritta non la vuole nessuno, quindi è tutto fatto di podcast, immagini, video, reel e spiegoni.
Tu cosa spiegheresti bene?
Io niente, perché ho il complesso dell’impostore. Recentemente ho fatto un intervento in tv sulle elezioni americane e ho studiato un giorno intero prima, perché sono ansioso, anche se ho vissuto per due anni in America.
Cosa c’è di diverso nella società americana rispetto a quella italiana, secondo la tua esperienza?
Adesso sembra che tutti odino gli Stati Uniti, è di moda essere antiamericani, anche con la scusa di Trump. In realtà secondo me è venuto fuori un antiamericanismo come l’antisemitismo, che c’è sempre stato, ma adesso è diventato “cool”, da mostrare. Tuttavia, penso che quella americana alla fine, anche con tutti i suoi difetti, sia una società più onesta della nostra. Adesso so che mi odieranno per questo e non venderò più un libro, ma vedi, noi importiamo le cose più stupide dell’America: tutti si lamentano della sanità americana, ma alla fine ormai è così anche qua, è tutto privato, però gli americani non pagano il 70% di tasse come da noi. Tutti si lamentano degli homeless a San Francisco, ma se vieni a Milano, sotto i ponti a NoLo, o alla stazione Termini di Roma, è pieno. Però a San Francisco tra gli homeless hanno anche fondato Facebook, Instagram, Apple, e ora ci sono le aziende dell’intelligenza artificiale, noi invece abbiamo gli homeless e basta. Siamo specializzati nell’importare solo le vaccate, solo le cose negative degli Stati Uniti. Lì c’è la mobilità sociale e un entusiasmo per cui chiunque ha una possibilità, mentre da noi giocano tutti a fare le startup. Io conosco parecchia gente di successo, ma se mi chiedi: conosci qualcuno che ha iniziato da zero? Pochissimi, perché la maggioranza sono figli di papà, che giocano a fare lo startupper, il giornalista, la stilista. Poi in Italia fare soldi è sempre stato visto un po’ come una cosa volgare, se uno ha successo c’è sempre il sospetto che sia un evasore o che abbia fatto chissà cosa, invece magari è solo uno che si è fatto il mazzo.
Quindi in America vale davvero il merito?
Sì. Non è la società perfetta, ma neanche la nostra lo è.
Una volta hai scritto “Nel tinello di casa, come dimostra Meloni, c’è solo la famiglia, la sorella, il cognato, il ministro, la segretaria sposata col capo di scorta e gli amici stretti…”. Secondo te l’Italia è ancora un Paese familista e dove funzionano dinamiche di “amichettismo”?
Sì, assolutamente. Amichettismo a tutti i livelli, e fa ridere la destra che dice di premiare il merito. La Meloni è proprio l’esempio opposto: lei fa quasi una specie di “meme” della famiglia, dove c’è il cognato, la mamma, la sorella, la guardia del corpo… Hanno troppo pochi parenti per fare tutto. Quindi sì. Poi c’è anche un aspetto di familismo positivo del sistema italiano: in America c’è una veloce ascesa, ma altrettanto veloce è anche la caduta. Lì se perdi il lavoro vai a dormire in macchina, e poi se ti tolgono la macchina, diventi homeless. In Italia invece hai sempre una cugina o una zia che ha l’orto, che tira fuori la pensione della nonna, la mansarda della zia che fa da AirBnb… E trovi una soluzione.
Durante la presentazione del libro avete menzionato anche Walter Siti, che hai detto piacerti molto. Cosa pensi della nuova casa editrice Silvio Berlusconi Editore? Ha anche già annunciato che tra le sue prossime pubblicazioni ci sarà un libro di un dissidente contro Putin e uno proprio di Walter Siti. È un modo per cannibalizzare la sinistra?
Berlusconi è stato un grande Pnrr per la sinistra, perché tutta la gente di sinistra, da D’Alema in giù, scriveva per Mondadori o per Einaudi o faceva trasmissioni contro Berlusconi. Travaglio se non ci fosse stato Berlusconi sarebbe ancora a fare il piccolo cronista. Berlusconi poi, avrebbe pubblicato anche Marx se ci fosse stato interesse commerciale, anzi l’ha fatto, con Einaudi. E poi, premesso che non ho mai votato Berlusconi, anzi, da elettore di sinistra sono sempre anche andato a fargli le manifestazioni contro, però a Marina Berlusconi mi candiderei per farle da portavoce, dopo quello che ha detto sui diritti.
Cioè?
Che non è d’accordo con la Meloni. In Italia ormai sono tutti rincoglioniti, e la destra di Giorgia Meloni “law and order” ti dice che lei “è una madre, cristiana”, anche se ha un fidanzato e non è sposata e ha una famiglia allargata bella scapestrata. Ma questo è un bel disorder… Anche Marina Berlusconi è madre, cristiana, però è sposata in chiesa. Allora dico, vuoi fare la destra? Sii coerente. Non puoi dire “i gay non possono fare questo”, decidere come e in che modo e posizione gli altri devono fare sesso e avere o non avere figli e tu fare come ti pare, perché io rispondo che allora anche io divento puntiglioso, e da una leader conservatrice pretendo comportamenti conservatori. Perché non si sposa? Ma la Meloni è furbissima, prende il meglio della contemporaneità per sé, poi però gli altri devono vivere negli anni Cinquanta. Non funziona così.
Sì, un discorso che è stato fatto anche un po’ sulla vita privata di Salvini, no?
Certo. C’era una famosa battuta in un’intercettazione di anni fa, in cui si diceva “fare i fr*ci col c*lo degli altri”, a Roma si dice così. Questi fanno quello che gli pare. Una volta i politici democristiani bacchettoni, quelli che erano contro l’aborto e contro il divorzio, avevano delle vite coerenti, o almeno, facevano delle vite di m*rda per mantenere la facciata, avevano delle amanti di nascosto, però tenevano una apparenza coerente. Oggi invece vanno al Papeete, ubriachi, a torso nudo, con le fidanzate post matrimonio giovani e carine… La Meloni ha il compagno che era nella scuderia di Lele Mora, secondo varie ricostruzioni mai smentite, e poi però gli altri devono vivere come in Corea del Nord.
Secondo te oggi c’è libertà di stampa o siamo in un momento di grave censura, anche con la questione di “Tele Meloni”?
Un po’ di censura c’è, sicuramente, ma c’è sempre stata, perché l’idea della libertà di stampa ‘totale’ è una fandonia. Come diceva anche Pasolini, nel momento in cui scrivi o sei in una tv, se non sei un demente, sai che non puoi parlar male di alcune cose, per esempio se sei su TeleMilano, non puoi parlare male di Milano. Però una volta c’era un galateo. Questi invece sono scatenati, non accettano nessun tipo di critica. Distruggendo poi la Rai, da cui scappano tutti. Alla Rai nella Prima Repubblica il criterio per le assunzioni era: ne prendiamo uno della Democrazia cristiana, uno comunista, un socialista e poi uno bravo. Adesso invece ci sono questi affamati di potere che piazzano solo la loro gente e non ne hanno abbastanza. Perché poi, finiti i cugini e i parenti di terzo grado, i risultati si vedono.
Cioè?
Guarda il caso del povero Pino Insegno. Bravo doppiatore e bravo attore, ma in tv gli hanno dovuto aprire e chiudere tre programmi prima di trovarne uno che funziona. È una vittima dell’amichettismo di destra. Che punta su personaggi che non guarda nessuno, neanche i cognati della Meloni. A quel punto non è un problema di censura, ma è un problema mentale; perché si ostinano a mettere i loro, invece di aprirsi. Oltretutto parlano di “egemonia culturale”, ma egemonia culturale vuol dire appunto aprirsi alla società, portandone una parte verso di sé. In un Paese di voltagabbana come il nostro un sacco di giornalisti e artisti sarebbero anche felici di riposizionarsi, però i politici al governo vogliono la loro gente, quindi diciamo che non sono molto furbi. Più che egemonia è agonia culturale. Secondo me la Meloni prende uno stipendio dal Nove. Dove fuggono tutti gli artisti Rai.
Forse in questo era più bravo proprio Berlusconi?
Completamente, ma Berlusconi era un imprenditore, ragionava col modello americano. Prendeva chi funzionava. Questi invece hanno il modello coreano, nord-coreano.
A proposito della libertà di stampa, cosa pensi del fatto che Putin abbia deciso di censurare 77 siti di media occidentali, fra cui anche 4 italiani (Rai, la7, La Repubblica e La Stampa)?
Secondo me l’idea gliel’ha data la Meloni (ride).
E invece la scarcerazione di Julian Assange, che ha creato molto dibattito, è davvero una vittoria per la libertà di stampa?
È stato l’ultimo momento di lucidità di Biden, ha fatto una gran furbata. Lui è un democristiano vero.
Però dopo l’ultimo confronto è in grande difficoltà
Mi domando che ne è stato della grande tradizione americana del regicidio. Questo sì che rappresenta la crisi del modello americano: nei tempi d’oro avrebbero già fatto fuori sia Trump che Biden. E non saremmo arrivati a questa situazione incresciosa con questi due vecchi improponibili. Io penso comunque – o almeno spero - che Biden alla fine vincerà comunque, perché gli americani alla fine hanno un senso democratico forte. Hanno visto cosa può succedere con uno come Trump. Voglio dire, Trump è uno che ha fatto un colpo di Stato e se ne vanta. Quindi Biden sarà anche rincoglionito, ma l’America ha avuto presidenti più vecchi, Roosevelt aveva 50 anni ma negli anni Trenta, Eisenhower 60 negli anni Cinquanta. Erano vecchissimi per l’epoca. E poi qui è in gioco la libertà vera. Trump è un golpista, più di questo non so che dovrebbe fare, forse uccidere in giro la gente? Oltretutto Biden, una cosa che non dice mai nessuno, ha fatto dei piani economici rivoluzionari: mentre noi siamo diventati come l’America con la sanità privata, loro ora hanno la sanità pubblica, hanno fatto degli investimenti pazzeschi. Poi tutto può succedere, ma quando mi sono trasferito in America sono arrivato a novembre del 2016, una settimana prima che vincesse Trump, e ricordo che nessuno lì pensava che sarebbe potuto succedere, e invece è successo e non è stato bello…
Qual è stata la reazione all’elezione di Trump allora?
Sembrava che fosse scoppiata una bomba nucleare. Io ero a San Francisco, culla della sinistra, e ricordo che una settimana prima si sentiva un po’ che sarebbe arrivata la vittoria di Trump, però quando poi successe, era come se fosse successa una catastrofe soprannaturale. Ricordo che il giorno dei risultati elettorali arrivavano delle e-mail delle università che avevano aperto i pronto soccorso di consulto psicologico. C’era una specie di trauma nazionale, però loro l’avevano votato no?
Sta succedendo una cosa simile anche in Francia, o almeno così pare. Dopo la vittoria di Marine Le Pen alle elezioni europee, hanno aperto delle sedi che offrono consulto psicologico per la popolazione allarmata per l’avanzata dell’estrema destra…
È una cosa che succedeva anche con Berlusconi sai? Io mi ricordo che in Italia Berlusconi continuava a vincere, ma nessuno l’aveva mai votato. Io non avevo mai conosciuto nessuno che lo avesse votato, un po’ strana come cosa, perché i voti in realtà li prendeva, non ha fatto un colpo di Stato, ma non si capiva da dove arrivassero.
Cambiando tema: noi su MOW parliamo molto anche di auto e moto. Durante la presentazione del libro hai detto questa frase: “il maschio italiano non può avere il cambio automatico”, cioè?
Nel libro ho messo questa scena del giornalista che ha un padre molto severo e all’antica, lombardo, che colleziona Quattroruote, ed è a favore del cambio manuale, e invece dall’altra parte trova questo romano, che è un po’ come se fosse un padre putativo, come il ragazzo l’avrebbe voluto, ovvero morbido, soft, e questa cosa è simboleggiata dal fatto che lui guidi una Rolls-Royce, ovviamente col cambio automatico. Questo contrasto sembrerà strambo magari oggi, ma all’epoca della mia adolescenza ricordo che sui giornali di macchine italiani si parlava malissimo del cambio automatico, come se fosse una cosa che svilisce la virilità del maschio, dicevano che bisogna “sentire” le marce. Ma che devi sentire? A me piacciono molto le macchine, ho anche collaborato con Quattroruote. Ho cominciato a guidare prestissimo, perché, soprattutto in provincia, dove vivevo, era importantissimo. L’esame della patente era un rito fondamentale per i maschi della mia generazione, altro che quello di maturità.
Sul lavoro del giornalista: durante la presentazione il libro è stato definito anche come un libro sulla “politica del lavoro e sul precariato”. Dunque, riflette la realtà?
Sì. Emanuele Trevi, mio amico geniale, ha detto che è anche un libro sulla fine del giornalismo, ed è un po’ è vero. Sicuramente io facendo questo lavoro e amandolo moltissimo, ho visto in questi anni com’è cambiato. Ho frequentato anche alcuni vecchi giornalisti e ho visto quanto erano rilevanti e guadagnavano. Praticamente ho visto finire una cosa che di fatto era esagerata al contrario, perché ricordo di amici più grandi che nei grandi giornali avevano stipendi da 15mila euro al mese, più la macchina aziendale…
Sì, la macchina, l’assicurazione sanitaria, e molti benefit, no?
Be’, l’assicurazione sanitaria c’è anche oggi, per fortuna. Ma c’era la cosa incredibile della diaria. Avevo un amico a Roma che non sapeva bene come spendere la sua diaria, cioè dei soldi in più come se fosse in missione. Insomma, era un grande bonus 110% per giornalisti: ti buttavano i soldi addosso, e c’è gente che si è comprata case in montagna, al mare, mentre adesso è una cosa allucinante in senso opposto. Io sono fortunato, lavoro al Foglio che mi accoglie, è il mio piccolo “Paradiso” e mi dà uno stipendio per cui sono felice e la libertà di seguire le cose che mi piacciono; però effettivamente vedo tanti giovani, dove le paghe continuano a scendere e anche la qualità del lavoro.
Quindi hai deciso di inscenare questo anche nel tuo romanzo apposta
Sì. Non è che volessi fare un libro di denuncia, ma siccome è il mio lavoro e di giornalisti ne conosco tanti, ho visto proprio così il giornalista a partita Iva, che anche io sono stato, è una vita d’inferno. Passi la vita a preparare le fatture per il commercialista, e a tentare di scaricare fatture di ristoranti che non scaricherai.
Secondo te verremo sostituiti dalle intelligenze artificiali nella scrittura? Perché adesso ci sono già libri scritti dalle IA.
Per me la app fattureincloud è stata più importante dell’intelligenza artificiale! Per quanto riguarda i libri non lo so, giornali invece spero che arrivino presto.
Per scrivere meglio?
No, per sbrigare le cose noiose. È come il cambio automatico: cioè, non è che la tecnologia distrugge i lavori, distrugge i lavori di m*rda. Per esempio, ci sono app che sbobinano le interviste al posto tuo, le traducono, le riassumono, ecco, ben venga. Se si guarda sui siti di finanza americani, i commenti di borsa sono già scritti con I’Ia. Per scrivere quelle cose un po’ da comunicato, alla fine non è che serva Milan Kundera. E poi rispetto a molti articoli e giornali online pieni di errori di grammatica e refusi, almeno la Ia non li farebbe. Ci sono giornali online scritti da umani pieni di errori che non vengono mai corretti, cimiteri di articoli scritti male che rimangono lì per sempre. Ogni volta che ci incappo sto malissimo. E succede ormai giornalmente.
A proposito di libri e scrittura, cosa pensi del Premio Strega?
È una grande cerimonia italiana e romana, io ci vado sempre. Intanto, è in uno dei posti più belli a Roma, al Museo etrusco di Villa Giulia, e poi è sempre una cosa da Grande Bellezza: vedi queste vecchie signore, il sindaco di Roma, gli scrittori, tutti sudatissimi perché fa sempre caldissimo, però è un grande rito romano, che va visto almeno una volta nella vita. Anche l’assalto al buffet è uno spettacolo.
E quelli che dicono che sia un concorso truccato?
Eh, che dicessero qual è il trucco, così lo vinciamo. (Ride).
Se un domani non potessi più scrivere, cosa ti piacerebbe fare?
Mi piacerebbe fare finalmente il diplomatico a questo punto: datemi un consolato onorario, va bene anche San Marino, così tanto per consolazione; oppure in un posto caldo: a Bangkok va benissimo.