“Non c'è nessun cielo Cesonia!” diceva un Caligola diventato pazzo per la troppa lucidità dopo la perdita dell'amata Drusilla. The Tragedy of Macbeth di Joel Coen, alla sua prova solista, coniuga la terribile solitudine dei mostri di Albert Camus con l'assassino Re di Scozia della tragedia di Shakespeare. Bene o male tutti conosciamo il Macbeth, e chi non l'ha letto - nella meraviglia dei meccanismi della cultura di massa - ne cita delle memorabili battute senza essere cosciente della loro provenienza. La tragedia scozzese, chiamata così per superstizione negli ambienti teatrali, è di certo l'opera più asfissiante della prolifica carriera del Bardo, quella che non lascia intravedere una luce in fondo al tunnel e se ne vedete una, trasposta al giorno d'oggi, è sicuramente un treno ad alta velocità pronto ad abbracciarvi con un frontale.
Joel Coen, supportato dalla fotografia di Bruno Delbonnel, coglie l'essenza più brutale del Macbeth regalandoci un'opera che andrebbe vista se non al cinema (solo negli Stati Uniti è uscito in sala) almeno nell'intimità della propria casa con una tv 4K, coccola possibile grazie alla piattaforma Apple TV+. L'estetica di The Tragedy of Macbeth richiama i lavori di Giorgio de Chirico e quell'arte metafisica che non è altro che il proprio inconscio devastato, deformato e spaventoso reso visibile a chiunque. C'è chi nelle pieghe noir rivedrà il lavoro di Orson Welles, chi la magnificenza de Il trono di sangue di Kurosawa, oppure l'ambiguità psicologica degna della versione di Roman Polanski. Se Frances McDormand non sembra la scelta ideale per l'impersonificazione del male a.k.a. Lady Macbeth, forse perché l’attrice è sempre fine a sé stessa, Denzel Washington dà una esemplare prova di forza e tragica vulnerabilità psicologica. Difficilmente, anche per le scelte personali dei progetti che l'hanno visto coinvolto, Washington è stato così convincente. Vediamo sin da subito, dalle prime scene, la stanchezza di un uomo che è diventato tale sui campi di battaglia; in questa versione Macbeth è più vetusto, maggiormente stanco, con l'anima in spalle per servire al meglio suo cugino, il Re Duncan.
Nello spettro pregevole di grigi della fotografia c’è la stessa ossessione per la psicologia dei personaggi degna di Dreyer: non siamo nel manicheista mondo del bianco e nero, nessuno dei protagonisti della tragedia, vittime e artifici, hanno un ruolo netto e unidimensionale, sono sia vittime che colpevoli della loro disgrazia e di quella altrui. Che sia Lady Macbeth coi suoi modi manipolatori nei confronti del marito, Macbeth stesso nella trasformazione da guerriero a tiranno, Ross (Alex Hassell) il doppiogiochista (?) o lo stesso Macduff (Corey Hawkins), nessuno di loro è esente da delitti; ciò che tarda ad arrivare (e non per tutti) è il conseguente castigo. Lo stesso trio di streghe (Kathryn Hunter inquietante come poche) non è etichettabile come male assoluto: serve anch'esse del Destino o semplicemente elementi sovrannaturali caotici che si divertono a creare scompiglio tra gli umani? Inizia da loro The Tragedy of Macbeth, in un bianco che non è mai puro, ma sporco - e che ricorda tanto l'estetica di alcuni film dell’est Europa degli anni '60 - come quella fittizia Scozia immersa nella nebbia, Sono gli spazi infinitamente piccoli degli interni (i palazzi veri e propri panopticon) e quelli indefiniti degli esterni, a chiudere la lista dei protagonisti principali. Il sovrannaturale tanto quanto la natura, in particolar modo gli uccelli, ogni elemento riconduce a una realtà che non vediamo, ad atmosfere da incubo proprio perché statiche e immobili come una terra di nessuno che rimane “per sempre gelida e muta”.
La scalata al potere di Macbeth, prima Sire di Glamis poi di Cawdor e infine Re come predetto dalle streghe, in apparenza piena di dinamismo su un tappeto di sangue non è quella illusione di movimento e di senso che caratterizza l'esistenza: “gli uomini muoiono e non sono felici”, lo stesso Macbeth in pieno looping capisce che solo un elemento esterno, secondo la profezia “colui che non è nato da una donna”, potrà spezzare le catene di un male che si autoalimenta e viene alimentato. Il regicidio voluto da Lady Macbeth non ha dato il La alla follia del marito, ma l’omicidio del suo amico e compagno Banquo, colui che sarebbe diventato padre di una stirpe di Re, sempre secondo la parola delle streghe. E poi c’è Ross che rivisitato da Coen è uno dei personaggi più affascinanti e ambigui, sia per la fisicità liquida, androgina, esaltata da vesti che sembrano coprirlo come una marea oscura, che per le azioni che commette o a cui sembra partecipare. Nel suo servire sempre e solo chi detiene il potere, Ross pare l’emblema dell'uomo politico per eccellenza, o lo spirito (?) che lascia che il fato e il libero arbitrio si compiano senza nessun giudizio morale. Nessuno dei personaggi è libero se non nella misura in cui decidono come raggiungere un futuro che pare già scritto.
La colonna sonora curata da uno storico collaboratore dei fratelli Coen, Carter Burwell, sottolinea l'irrealtà delle scene - girate in un teatro di posa e in 4:3 - e, al contempo, l'enigma stesso dell'esistenza. Squarciato il velo di Maya Macbeth, come Caligola, impazzisce perché non trova nulla. Non c’è consolazione, né tanto meno una risposta o una soddisfazione completa e finale al male commesso e al potere raggiunto. Tutto è sterile, come i coniugi Macbeth e i campi sparsi di sale o, in questo caso, sangue. Ed è a quel punto di fuga, che è la morte, nostra o delle moltissime vittime di Macbeth, a cui tendiamo inevitabilmente tutti, senza avere imparato alcunché dalle nostre colpe, vere o solo immaginate. C’è differenza?